A cura di Ilaria De Togni
Da decenni le campagne dei dentifrici scorrono sugli schermi con la regolarità di un rituale, tanto da sembrare interscambiabili. Marchi diversi, testimonial diversi, laboratori diversi, eppure lo stesso copione: un camice bianco che incarna la voce della scienza, un sorriso abbagliante mostrato al rallentatore, un’animazione digitale che illustra microgranuli invisibili all’occhio umano, la promessa di una freschezza che si prolunga per 12, 24, persino 48 ore.
La ripetizione ha generato una grammatica pubblicitaria che il consumatore riconosce al primo sguardo, indipendentemente dal logo stampato sul tubo. Secondo i dati Nielsen, il settore oral care muove miliardi di dollari l’anno in comunicazione globale, ma la competizione feroce non ha prodotto diversificazione narrativa: ha piuttosto consolidato un’estetica uniforme, quasi burocratica. Quali sono le ragioni storiche (ed economiche) dietro questo fenomeno?
Dalle “cure miracolose” al sorriso moderno
La comunicazione dei dentifrici nasce tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, in un’epoca in cui l’igiene orale non era ancora un’abitudine quotidiana. Le prime campagne pubblicitarie si collocavano nello stesso solco dei rimedi miracolosi e delle panacee che affollavano i giornali, promettendo soluzioni semplici a problemi complessi. Colgate, fondata nel 1806 come fabbrica di amidi e saponi, fu tra le prime a lanciare un dentifricio in tubetto nel 1896: un’innovazione che rivoluzionò la distribuzione e fissò un modello destinato a dominare il mercato fino a oggi. Le prime inserzioni insistevano sulla promessa di igiene e modernità, rivolgendosi a un pubblico urbano che cominciava ad associare il bianco dei denti a status sociale e rispettabilità.
Negli anni Venti Pepsodent segnò un passaggio decisivo negli Stati Uniti, costruendo campagne attorno all’ingrediente di moda dell’epoca, la “pepsina”, e diffondendo slogan memorabili come “You’ll wonder where the yellow went”. Era un copywriting aggressivo e incisivo, capace di legare il prodotto alla paura della placca e al desiderio di un sorriso impeccabile.
Con l’avvento della televisione, negli anni Cinquanta e Sessanta, lo spot divenne il canale privilegiato. Da allora il racconto pubblicitario del dentifricio si è fondato su tre pilastri narrativi immutabili: la raccomandazione medica, il sorriso smagliante e la promessa di freschezza duratura. Una formula nata in un secolo di modernizzazione sanitaria che continua ancora oggi a regolare l’estetica del settore.

Il motivo dei cliché narrativi che dominano dagli anni ’70 a oggi
La monotonia delle pubblicità dei dentifrici non è frutto di pigrizia creativa, ma il risultato di un insieme di vincoli regolatori, pressioni commerciali e scelte psicologiche. Innanzitutto, i claim sui dentifrici rientrano in una zona delicata: non sono farmaci, ma prodotti parafarmaceutici soggetti a normative stringenti, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. La Food and Drug Administration (FDA) negli USA e l’EFSA in Europa limitano severamente l’uso di affermazioni non verificabili: non si può dire che un dentifricio “cura”, ma solo che “aiuta a prevenire la carie”, e solo se realmente supportato da studi clinici.
A questo si aggiunge un calcolo economico: l’oral care è un mercato dominato da pochi colossi – Colgate-Palmolive, Procter & Gamble (Crest, Oral-B), Unilever (Signal, Closeup) – che competono su scala globale. In un contesto di iper-concorrenza, deviare troppo dagli archetipi consolidati rischierebbe di minare la percezione di affidabilità. Mostrare sorrisi bianchi, dentisti rassicuranti, promesse di freschezza diventa quindi non solo consuetudine, ma necessità: sono segnali universali che il consumatore riconosce senza sforzo.
Infine, c’è una ragione psicologica: il sorriso è uno dei simboli sociali più potenti e rassicuranti, e le aziende sanno inoltre che ripetere ossessivamente la promessa di “bianco e fresco” rafforza la familiarità. Così, ciò che all’occhio critico appare come cliché, al consumatore medio appare come conferma. Ed è proprio questa continuità narrativa che, paradossalmente, tiene in piedi un mercato miliardario.
Colgate e Crest: l’egemonia narrativa dei giganti del settore
Oggi le pubblicità dei dentifrici appaiono stranamente simili, perché due grandi nomi – Colgate e Crest – hanno costruito non solo quadri di marca, ma intere grammatiche pubblicitarie che gli altri produttori hanno finito per seguire. Colgate detiene quasi il 40% delle vendite globali al dettaglio; Crest, marchio di Procter & Gamble, domina in Nord America. Con questi numeri, ogni deviazione dallo standard rischia di essere vista come un azzardo.
Crest segna un punto di svolta negli Stati Uniti nel 1960 quando ottiene l’approvazione ufficiale dell’American Dental Association all’introduzione del fluoro. Questa approvazione diventa subito un elemento narrativo centrale: non è più solo “dentifricio”, è “dentifricio raccomandato dall’autorità”. Quel sigillo di credibilità serve da fondamento alle comunicazioni successive, generando fiducia in un pubblico che cerca rassicurazioni più che sorprese.
Colgate, invece, costruisce un’identità universale: il “dentifricio per tutta la famiglia”, associato a valori rassicuranti. Nei suoi spot televisivi, dagli anni Ottanta in poi, vediamo bambini che ridono, genitori che sorvegliano, sorrisi bianchi come specchi. La struttura narrativa resta invariata in ogni parte del mondo: un problema come placca, carie, o alito, risolto con dimostrazione scientifica e la promessa che Colgate è la risposta definitiva per tutta la famiglia.
Campagne vintage celebri che hanno fatto storia nei dentifrici
Tra le pubblicità storiche dei dentifrici emergono alcune che hanno lasciato un segno profondo, non solo per la promessa di un sorriso bianco, freschezza, prevenzione della carie, ma per come l’hanno comunicata: con immagini evocative, stili pittorici, slogan memorabili.
Uno dei casi più iconici è quello di Crest negli anni ’50, con la campagna basata su Norman Rockwell: bambini sorridenti che mostrano alla mamma certificati dentali con la scritta “Look, Mom – no cavities!”. Questo slogan e le illustrazioni pittoriche divennero celebri non solo per la forza visiva ma anche per il fatto che erano associate a dati clinici reali sulla fluorurazione, promessa concreta di prevenzione.
Ultra Brite e il “sex appeal” negli anni Sessanta
Ultra Brite fu presentato da Colgate-Palmolive nel 1967 come dentifricio rivoluzionario, non soltanto per i suoi ingredienti sbiancanti, ma anche per il tono provocatorio della sua promozione. Per la prima volta nella categoria, la campagna pubblicitaria utilizzava la frase esplicita “Ultra Brite gives your mouth … sex appeal!” per distinguersi dagli altri dentifrici, che fino ad allora puntavano su temi come l’igiene, la salute o la prevenzione. La pubblicità, rivolta soprattutto ai giovani, insinuava che un sorriso non fosse un semplice pennello di pulizia ma anche un attributo sociale, capace di sedurre e affascinare.
L’annuncio stampato – uno dei materiali più celebri – mostrava denti brillanti e attenzione allo stile della presentazione visiva: colori vivaci, packaging allegro, font che trasmettevano energia e modernità. Non c’era un riferimento medico rassicurante come “raccomandato da dentisti”, ma una promessa di desiderio e trasformazione sociale: se desideri essere notato, questa è la pasta giusta.
Il successo di Ultra Brite stava proprio in questo scarto: la rottura rispetto ai modelli tradizionali. Dove gli altri dentifrici comunicavano come se fossero farmaci da banco, Ultra Brite parlava come un prodotto lifestyle. L’audacia del messaggio – “sex appeal” applicato a un dentifricio – era in sé controverso, ma ha funzionato come leva di differenziazione.
Pepsodent e Claude C. Hopkins: la campagna che inventò l’abitudine
All’inizio del Novecento l’igiene orale era tutt’altro che un’abitudine consolidata. Negli Stati Uniti pochissime persone si lavavano i denti, e il problema della carie si aggravava a causa della crescente diffusione di cibi industriali e zuccherati. Fu in questo scenario che Claude C. Hopkins, già celebre per aver trasformato marchi sconosciuti in nomi familiari, accettò la sfida di lanciare un nuovo dentifricio: Pepsodent.
Hopkins comprese che non bastava presentare il prodotto come utile: bisognava creare un rituale. Individuò allora un “nemico invisibile”, la sottile patina opaca che ricopre i denti, e la ribattezzò con un termine semplice ed evocativo: film.
La promessa era chiara e seducente: Pepsodent avrebbe eliminato quel velo giallastro restituendo bellezza, luminosità, dignità sociale. Non era una dichiarazione medica, ma un racconto potente, capace di trasformare una preoccupazione estetica in esigenza quotidiana.
I manifesti che tappezzarono le città americane parlavano direttamente al desiderio: “Perché mai una donna dovrebbe avere denti opachi? Pepsodent rimuove il film”. In questo modo Hopkins riuscì a trasformare un gesto marginale in un’abitudine. Creò un meccanismo semplice ma universale: un trigger riconoscibile (il film), un gesto quotidiano (il lavaggio dei denti) e una ricompensa irresistibile (la bellezza, il sorriso smagliante, l’accettazione sociale).
Il risultato fu dirompente. Nel giro di tre settimane la domanda esplose; in cinque anni Pepsodent era tra i prodotti più conosciuti al mondo. Un decennio dopo, oltre il 65% delle famiglie americane teneva un tubetto di Pepsodent nei propri armadietti, contro appena il 7% prima della campagna. L’impatto fu tale che, alla fine della Seconda guerra mondiale, l’esercito statunitense non considerava più la salute dentale dei soldati un problema: ormai l’abitudine al lavaggio quotidiano si era radicata.
Con Pepsodent, Hopkins non vendette soltanto un dentifricio: creò un comportamento sociale. E inaugurò una lezione di marketing che resta valida ancora oggi: i consumatori non comprano prodotti, comprano soluzioni ai loro problemi.
Pubblicità moderne dei dentifrici: l’illusione del cambiamento
Negli ultimi anni la comunicazione dei dentifrici ha tentato di rinnovarsi, sostituendo ai vecchi cliché come il dentista in camice, il sorriso smagliante, l’alito fresco “48 ore”; con nuovi temi come la sostenibilità, gli ingredienti naturali, l’esperienza utente, lo stile di vita. Eppure, dietro la superficie, la struttura narrativa rimane quasi immutata: ogni brand recita lo stesso copione, cambiando soltanto il tono, il contesto o la piattaforma – televisione, digital, social. Il consumatore contemporaneo è sommerso da messaggi che promettono autenticità e differenza, ma che finiscono per riproporre in forme nuove schemi già visti. Analizzare le campagne recenti significa allora osservare un paradosso: il nuovo si mostra come variante del già noto, e la vera rottura appare più illusoria che sostanziale.
Focus su ingredienti naturali: il nuovo volto della trasparenza
Uno dei filoni dominanti della pubblicità contemporanea nel settore dei dentifrici è quello della naturalità. Oggi alcune campagne si focalizzano su formule “bio”, sull’uso controllato del fluoro o sulla sua totale assenza, su packaging sostenibili e riciclabili.Brand come Burt’s Bees, Dr. Bright o The Humble Co. hanno costruito gran parte della loro identità proprio su questo approccio, preferendo i canali digitali – blog, social media, influencer marketing – agli spot televisivi tradizionali. L’obiettivo non è solo vendere un prodotto, ma proporre un gesto quotidiano che coniughi igiene orale e responsabilità ambientale.
Nuove strategie comunicative basate su contenuti educativi
A questo linguaggio si affiancano strategie comunicative basate su contenuti educativi: post informativi, video-tutorial, dimostrazioni che rafforzano la credibilità e la vicinanza con il consumatore. Emblematico il lancio di “Colgate OW Purple” nel 2023, una campagna che ha scelto TikTok come piattaforma principale. L’elemento distintivo non era solo la promessa di denti più bianchi, ma un’esperienza visiva accattivante, veicolata dal packaging viola e dal coinvolgimento diretto degli utenti attraverso contenuti generati dalla community.