Pubblicità comparativa: all’estero cultura del confronto, in Italia gabbia normativa

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28 September, 2025

La pubblicità comparativa è il terreno in cui il marketing si trasforma in duello: due marchi, uno di fronte all’altro, pronti a dimostrare chi sia più forte, più autentico, più vicino ai desideri del consumatore. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito questo linguaggio competitivo è stato normalizzato, addirittura incoraggiato, nella convinzione che il confronto diretto favorisca trasparenza e scelte più consapevoli. In Italia, invece, il quadro è stato a lungo diverso: la tradizione normativa e giurisprudenziale ha letto la comparazione come insidia, una zona grigia dove la creatività rischia di sconfinare nella denigrazione. Nonostante ciò, alcune campagne restano scolpite nella memoria collettiva: dagli spot Pepsi contro Coca-Cola negli anni ’80 e ’90, fino alle schermaglie tra giganti della tecnologia nell’era digitale.

Le origini della pubblicità comparativa

La pubblicità comparativa nasce ufficialmente negli Stati Uniti negli anni ’60, quando la Federal Trade Commission (FTC) decise di incoraggiarne l’uso come strumento a tutela del consumatore. Nel 1979 la FTC pubblicò linee guida chiare, invitando le aziende a citare esplicitamente i concorrenti purché le affermazioni fossero veritiere, verificabili e non ingannevoli. Da quel momento, il confronto diretto tra marchi divenne parte integrante della comunicazione americana.

Avis contro Hertz: la campagna che ha “inventato” la pubblicità comparativa

Nel 1962 Avis, all’epoca il secondo operatore nel mercato del noleggio auto statunitense, lanciò la campagna “We try harder” (“Noi ci impegniamo di più”). Lo slogan, ideato dall’agenzia Doyle Dane Bernbach, riconosceva apertamente la posizione di Avis come inseguitore di Hertz, leader indiscusso del settore. L’idea ribaltava però la gerarchia: essere secondi significava dover faticare di più, impegnarsi maggiormente per soddisfare i clienti, offrire un servizio migliore.
Era una forma di pubblicità comparativa molto raffinata: non citava Hertz con toni denigratori, ma alludeva in modo evidente al competitor, trasformandolo in punto di riferimento contro cui misurarsi. La campagna fu rivoluzionaria perché rese la vulnerabilità un vantaggio competitivo: Avis da “numero due” divenne sinonimo di dedizione, guadagnando rapidamente quote di mercato e consolidando la propria immagine di brand dinamico e vicino al consumatore.
Lo slogan ebbe un tale successo che Avis lo mantenne per oltre cinquant’anni, facendone uno dei casi più studiati della storia del marketing. È un esempio straordinario di come la pubblicità comparativa possa essere usata non per demolire l’avversario, ma per ridefinire la percezione del pubblico attraverso un confronto intelligente e indiretto.

Il lento cammino dell’Europa

In Europa il cammino fu più lento: solo con la Direttiva 97/55/CE, recepita in Italia nel 2000, vennero stabilite regole comuni che definivano la pubblicità comparativa come lecita se “non ingannevole” e “oggettivamente verificabile” (art. 2, Dir. 97/55/CE). Prima di allora, in molti Paesi europei – Italia compresa – ogni forma di confronto era di fatto vietata, in quanto assimilata a concorrenza sleale. La differenza di approccio tra il modello americano, basato sulla libertà del mercato, e quello europeo, più protettivo nei confronti della reputazione delle imprese, ha segnato per decenni le traiettorie comunicative dei brand.

Oggi la disciplina è contenuta nel D.Lgs. 145/2007 e nel Codice del Consumo, che consentono la comparazione solo se rispetta criteri molto stringenti: non deve essere ingannevole, deve confrontare beni o servizi omogenei, le caratteristiche devono essere oggettivamente verificabili e non deve esserci rischio di denigrazione o confusione. Nella prassi, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e lo IAP hanno spesso giudicato illecite campagne che all’estero sarebbero considerate legittime. Il risultato è che in Italia la comparativa esplicita è rarissima, e i brand temono più il rischio di contenziosi che il vantaggio competitivo derivante da una comunicazione competitiva.

Strategie “alternative”: quando la comparativa non si può fare

Per aggirare i vincoli normativi, le aziende italiane hanno elaborato forme sottili di comparazione implicita. Una delle tecniche più frequenti è l’uso di claim generici come il leader di mercato o la più amata dagli italiani, espressioni che suggeriscono un primato senza mai citare il rivale diretto. Un’altra strada è il confronto con la media del settore: il doppio della durata rispetto agli standard, che consente di posizionarsi in modo competitivo senza esporsi a denunce per denigrazione.

Elemento cruciale, in questi casi, è l’uso delle note di supporto: non semplici disclaimer formali, ma veri e propri apparati documentali che spiegano su quali basi si fonda la promessa pubblicitaria. Frasi come dati rilevati da test di laboratorio indipendentio ricerca condotta su un campione rappresentativo fungono da scudo legale, permettendo di dimostrare che il confronto non nasce da suggestioni creative, ma da misurazioni oggettive. Quando i claim sono più audaci, le aziende italiane accompagnano lo spot con riferimenti a ricerche di settore, audit di enti certificati o benchmark tecnici, così da ancorare la comunicazione a prove verificabili e difficilmente contestabili.Accanto a questi accorgimenti, si fa spesso ricorso all’umorismo e allo storytelling. Ironia e doppi sensi consentono di evocare un competitor senza nominarlo, giocando con la complicità del pubblico.


In Italia, insomma, la creatività deve convivere con la cautela: l’arte sta nel suggerire il confronto senza mai renderlo esplicito, travestendolo da intrattenimento o da ironia.

Pepsi vs Coca-Cola: il confronto che ha fatto scuola

Se c’è una battaglia pubblicitaria che ha definito l’immaginario collettivo della comparativa, è quella tra Pepsi e Coca-Cola. Negli Stati Uniti, il cosiddetto “Pepsi Challenge” del 1975 rappresentò il punto di svolta: nei test alla cieca, i consumatori erano invitati a scegliere tra due bicchieri anonimi, spesso preferendo Pepsi. L’iniziativa non solo conquistò l’attenzione mediatica, ma aprì la strada a decenni di campagne in cui Pepsi costruì la propria identità in opposizione diretta alla rivale. Negli anni ’80 e ’90 la sfida si fece ancora più esplicita, con spot televisivi in cui bambini o consumatori sceglievano Pepsi di fronte a Coca-Cola, o in cui veniva ridicolizzata la “vecchia guardia” rappresentata dal brand di Atlanta. Coca-Cola rispose con una strategia meno aggressiva, puntando sulla tradizione e sull’emozionalità. Quella rivalità divenne parte della cultura pop: ancora oggi le Cola Wars sono citate nei manuali di marketing come esempio di come la comparativa possa diventare spettacolo globale e generare effetti concreti sulle quote di mercato. Un approccio, questo, reso possibile da un sistema normativo americano che non puniva il confronto esplicito, purché basato su elementi verificabili.

Le Cola-Wars: un conflitto lungo oltre un secolo

La rivalità tra Coca-Cola e Pepsi affonda le radici nella fine dell’Ottocento, quando entrambe le bibite nacquero in un contesto dominato dai rimedi popolari e dalle cure miracolose che intasavano le pagine dei giornali. Coca-Cola, creata nel 1886 dal farmacista John Pemberton, si impose presto come simbolo del gusto americano, mentre Pepsi, fondata nel 1893 da Caleb Bradham, tentava di insidiare il primato con ricette e campagne sempre più aggressive.
Quella che inizialmente era una competizione commerciale si trasformò nel Novecento in un duello epico, al punto da guadagnarsi l’espressione “cola wars”. La cultura pop americana degli anni ’80 e ’90 ha reso questa rivalità familiare a livello globale, trasformando spot pubblicitari in eventi mediatici.

«La Coca-Cola è la cosa più vicina al capitalismo che si trovi in una bottiglia», scrive Tom Standage in Una storia del mondo in sei bicchieri (Codice edizioni). Pepsi, dal canto suo, ha spesso incarnato lo spirito di ribellione e innovazione, contrapponendosi al colosso di Atlanta con un linguaggio più giovane e aggressivo. Nel secondo dopoguerra, l’espansione mondiale delle due aziende non fu affatto lineare: boicottaggi, restrizioni politiche, divieti e guerre commerciali ne hanno scandito la traiettoria.

Dalla Guerra Fredda al Medio Oriente, le “cola wars” sono diventate metafora delle tensioni tra capitalismo e socialismo, tra globalizzazione e resistenze locali. Dietro ogni lattina non si celava solo una bibita, ma un simbolo culturale e politico, capace di generare adesione o rigetto in base alle congiunture storiche.

Jaguar contro Mercedes: il giaguaro che mangia le galline


Nel 2013 Mercedes-Benz lanciò lo spot “Magic Body Control”, in cui delle galline danzavano al ritmo di musica dimostrando la stabilità delle sospensioni. Il video ebbe enorme risonanza, anche perché rompeva con lo stile solitamente sobrio ed elegante della comunicazione Mercedes. Jaguar colse l’occasione per rilanciare con una parodia memorabile: un giaguaro irrompeva in scena azzannando le galline, accompagnato dal claim «Jaguar. Because cats don’t like chicken». Lo spot si chiudeva con la scritta: «Magic Body Control? Noi preferiamo riflessi felini»

Il risultato fu uno dei duelli pubblicitari più divertenti dell’ultimo decennio: un concetto tecnico tradotto in gag visiva, capace di esaltare la personalità dei due brand. Senza denigrare l’avversario, Jaguar affermava la propria filosofia di marca – potenza, velocità, istinto predatorio – contrapposta alla compostezza ingegneristica della rivale. La campagna divenne virale e mise entrambe le aziende sotto i riflettori, dimostrando come l’umorismo comparativo, se calibrato, possa trasformarsi in un’arma potente di posizionamento. Interessante notare che in nessuno dei due spot comparivano le auto: il messaggio passava attraverso simboli immediatamente riconoscibili – le galline per Mercedes, il giaguaro per Jaguar – a conferma del valore della coerenza visiva e della forza dell’identità di marca.

Mac vs PC


Tra il 2006 e il 2009 Apple lanciò negli Stati Uniti una delle campagne comparative più iconiche di sempre: Get a Mac. Gli spot mettevano in scena due personaggi: un Mac giovane, sicuro di sé, e un PC impacciato, vestito in giacca e cravatta. In chiave ironica, Apple mostrava la semplicità d’uso e la creatività dei propri computer contrapposte ai problemi tipici dei PC Windows – crash, virus, lentezza. La serie di oltre 60 spot televisivi non solo consolidò l’immagine “cool” di Apple, ma ebbe un impatto diretto sulle vendite, contribuendo a un incremento del 39% nel primo anno di campagna. La comparazione era chiara, ma giocata sul piano narrativo, senza mai risultare denigratoria. Questa campagna resta tuttora un riferimento accademico e pubblicitario per l’uso intelligente dell’umorismo come leva competitiva.

Wendy’s vs McDonald’s: una sfida a colpi di tweet

Se Apple e Jaguar hanno fatto scuola in TV, Wendy’s ha scelto i social media come campo di battaglia. Negli ultimi anni la catena americana di fast food ha trasformato Twitter in un’arena di confronto diretto con McDonald’s e Burger King. Un esempio diventato virale è il tweet in cui Wendy’s sottolineava che le proprie patatine “non erano mai congelate”, in evidente contrapposizione con quelle dei concorrenti, senza nominarli ma lasciando intendere chiaramente a chi fosse rivolto l’attacco. L’operazione ha funzionato non solo per la sua ironia, ma per il tono confidenziale, rapido e spietato tipico del linguaggio social. A differenza del mercato italiano, dove l’autodisciplina rende quasi impossibile questo approccio, negli Stati Uniti e in altri Paesi la libertà normativa consente al confronto digitale di diventare un asset strategico di engagement. Il risultato: Wendy’s è diventata un case study globale su come usare la comparativa in chiave ironica per costruire brand awareness e viralità.

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