Oltre il prodotto: il potere sociale del marketing

C’è stato un tempo in cui la pubblicità viveva soltanto di slogan e immagini patinate, dove il messaggio era chiaro e univoco: vendere. Oggi, invece, lo storytelling commerciale si muove su un terreno molto più accidentato, dove la comunicazione incontra l’etica, e il marketing sfiora — talvolta in modo genuino, talvolta per calcolo — le grandi questioni sociali del nostro tempo.

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20 June, 2025

Non è più sufficiente un prodotto ben confezionato per catturare l’attenzione di un pubblico che pretende sempre più coerenza, trasparenza e responsabilità. Il consumatore moderno, soprattutto nelle generazioni più giovani, cerca brand capaci di esprimere valori reali, di prendere posizione, di mostrare un volto umano. E se è vero che ogni azienda ambisce a vendere, è altrettanto vero che oggi nessun marchio può permettersi di apparire indifferente alle emergenze ambientali, alle battaglie sociali o ai temi della salute mentale.

La pubblicità si è così trasformata in un’arena in cui la sostenibilità, l’inclusione, il benessere psicologico o la lotta alle disuguaglianze diventano narrazioni centrali. Ma questa nuova stagione della comunicazione nasconde anche pericoli sottili. L’urgenza di apparire “buoni” genera fenomeni come il purpose washing: in cui l’impegno sociale si riduce a un gesto di facciata, privo di conseguenze concrete, buono solo per collezionare like e consensi effimeri.

Eppure, nonostante il rischio di superficialità, la tensione tra marketing e impegno etico resta uno dei nodi più affascinanti e cruciali della comunicazione contemporanea.

Perché il sociale funziona nella pubblicità

Se le aziende hanno imparato a parlare di ambiente, diritti o salute mentale, non è solo per nobiltà d’animo. La verità è che il sociale funziona, e funziona perché risponde a un pubblico diverso da quello di trent’anni fa: più informato, più esigente, più disposto a premiare chi dimostra coerenza e valori.

Numerose ricerche, come quella del Global Consumer Insights Survey di PwC, convergono su un dato ineludibile: oltre il 60% dei consumatori oggi sceglie prodotti e servizi non soltanto sulla base del prezzo o della qualità, ma sulla percezione che il brand sia impegnato su questioni etiche e sociali. Per le nuove generazioni, questo aspetto è ancora più marcato: i nati tra il 1995 e il 2010 — la cosiddetta Generazione Z — dichiarano, in oltre il 70% dei casi, di attendersi dai brand una presa di posizione chiara su temi sociali e ambientali.

Non si tratta, dunque, di semplice estetica comunicativa. La pubblicità sociale penetra là dove la comunicazione tradizionale non arriva, creando empatia e senso di appartenenza. Un brand che parla di sostenibilità, di parità di genere o di salute mentale costruisce una relazione diversa con il suo pubblico, fondata su valori condivisi e su una percezione di “vicinanza” che va oltre il prodotto.

Lo spot pubblicitario come evento culturale

È proprio questa prossimità emotiva che trasforma lo spot pubblicitario in un evento culturale. Non è più solo questione di far conoscere un prodotto, ma di partecipare a una conversazione più ampia sulla società e sul futuro. Da strumento di persuasione, il marketing si trasforma in piattaforma di dibattito pubblico, capace di generare discussioni, articoli, post virali, e di condizionare l’agenda personale di ognuno. Certo, il confine resta sottile. La stessa forza che rende efficace la pubblicità sociale la rende anche vulnerabile al sospetto: dove finisce l’impegno reale, e dove comincia l’opportunismo? Il pubblico lo percepisce, e lo punisce quando sente odore di ipocrisia. Perché oggi la pubblicità non è più soltanto uno specchio dei desideri privati, ma anche uno strumento di riflessione. La domanda resta: dove finisce il marketing, e dove comincia davvero il sociale? Semplice, quando una campagna funziona davvero, facendosi potenziale motore di un cambiamento collettivo.

Ne abbiamo selezionate tre, tra le più discusse e controverse, da analizzare insieme.

Esselunga e il racconto familiare al centro del dibattito: autenticità o retorica?

Tra le campagne italiane che più hanno fatto discutere negli ultimi anni, poche hanno acceso il dibattito quanto “La pesca” di Esselunga. Uno spot di un minuto e mezzo, costruito su immagini delicate e silenzi eloquenti, racconta la storia di una bambina che, durante la spesa con la madre, compra una pesca con l’intenzione di regalarla al padre. Non si tratta di un gesto qualunque: la bambina, figlia di genitori separati, affida a quel piccolo frutto la speranza di farli riavvicinare, fingendo che sia stata la madre a volerlo per lui.

La semplicità disarmante di questa trama ha avuto un effetto deflagrante. Fin dalla sua prima messa in onda in TV, lo spot è stato oggetto di polemiche sui social e sulla stampa. Non tanto per il tema della separazione familiare, quanto per il modo in cui viene narrato: molti hanno accusato Esselunga di usare il dolore di una famiglia divisa come leva emotiva per fini commerciali, mentre altri ne hanno lodato la delicatezza e la capacità di raccontare un frammento autentico di vita quotidiana.

Dal punto di vista strategico, lo spot è perfettamente coerente con il posizionamento storico di Esselunga, brand che ha sempre puntato su narrazioni legate alla sfera familiare e ai gesti quotidiani. Ma in questo caso, il racconto pubblicitario ha superato i confini del marketing per trasformarsi in un evento culturale. In pochi giorni, “La pesca” ha raccolto milioni di visualizzazioni su YouTube e migliaia di commenti, spaccando il pubblico tra entusiasmo e indignazione.

I numeri sono notevoli: secondo i dati Nielsen, la campagna ha registrato una brand recall superiore al 70%, consolidando Esselunga come marchio percepito “vicino alle persone.”

Eppure, sotto questa apparente vittoria mediatica, numerosi critici hanno rimproverato allo spot un messaggio giudicato troppo tradizionalista e poco sensibile alle nuove configurazioni familiari, accusandolo di proporre una visione stereotipata e nostalgica del nucleo familiare.

“La pesca” rappresenta così un caso esemplare dei rischi connessi al marketing etico: la stessa leva emozionale che può avvicinare un brand al pubblico è anche capace di generare rigetto e contestazioni. Ma proprio queste reazioni dimostrano quanto il pubblico contemporaneo sia diventato vigile e critico: non subisce più passivamente le storie raccontate dalla pubblicità, ma le interroga, le discute, le mette in discussione. È in questo spazio — a volte conflittuale, a volte fertile — che la comunicazione trova la sua nuova funzione sociale: non più solo specchio della società, ma anche catalizzatore delle sue tensioni e delle sue speranze.

Birra Corona e il mare di plastica: quando il marketing si “sporca le mani”

Quando il marchio di birra Corona ha deciso di fare dell’oceano il cuore del proprio racconto, non si è accontentato di cartoline pubblicitarie fatte di onde blu e tramonti tropicali. Con il progetto “Plastic Fishing Tournament,” la marca ha trasformato la pulizia dei mari in una vera e propria sfida globale, dove pescatori, volontari e semplici cittadini non si contendono più il pesce più grosso, ma la quantità maggiore di rifiuti plastici tirati fuori dall’acqua.

Non si tratta solo di uno spot: è un’iniziativa concreta. Secondo AB InBev, la multinazionale proprietaria di Corona, grazie alle varie edizioni del torneo sono già state rimosse dalle acque oltre 30 tonnellate di plastica, in diverse nazioni. Numeri significativi, celebrati anche da testate di settore come The Drum e Campaign, che hanno evidenziato come Corona sia riuscita a trasformare un gesto simbolico in un format esperienziale dove marketing e azione reale si fondono.

La forza della campagna sta nella sua narrazione visiva. Niente toni catastrofisti: i video mostrano mani che trascinano reti piene di bottiglie, sorrisi, fatica, orgoglio. Il messaggio non è “il mare è spacciato,” ma “c’è ancora qualcosa che possiamo fare.” Questo approccio positivo si traduce in un forte impatto emotivo e in un coinvolgimento reale, come dimostrano le migliaia di post e video spontanei pubblicati sui social da chi ha partecipato.

Eppure, resta una domanda scomoda: dove finisce l’impegno vero e dove comincia la strategia di brand? Per Corona, un marchio che ha costruito la propria identità su immagini di natura incontaminata, puntare sulla sostenibilità è quasi inevitabile. Ma il rischio di essere accusati di greenwashing non scompare, specie perché parliamo pur sempre di un’azienda dell’industria alcolica, che di per sé solleva altri interrogativi sociali.

Barilla e la “Open Carbonara”: la pasta come linguaggio universale

Nel panorama sempre più affollato di brand che si cimentano con il racconto etico, Barilla ha scelto una via insolita: parlare di inclusione attraverso un piatto di pasta. E lo ha fatto con “Open Carbonara”, la campagna che ha fatto il giro del mondo per la sua capacità di trasformare la cucina in un messaggio di apertura culturale.

L’idea è tanto semplice quanto potente: la carbonara, uno dei piatti più iconici della cucina italiana, diventa il simbolo di un mondo senza confini. Nel corto pubblicitario — girato nel 2024 con la qualità visiva di un piccolo film — si alternano volti, accenti e mani provenienti da paesi diversi, intenti a cucinare la carbonara ciascuno a modo suo: chi aggiunge panna, chi usa il bacon al posto del guanciale, chi sostituisce gli spaghetti con altri formati di pasta. Elementi che, secondo i puristi, sarebbero “errori capitali.” Ma qui sta il cuore del messaggio: non esiste un solo modo giusto di cucinare la carbonara, purché lo si faccia insieme.

Il claim parla chiaro: There’s no wrong way to cook carbonara, as long as you do it together”. Un invito non solo gastronomico, ma sociale: riconoscere che anche le tradizioni più radicate possono diventare inclusive, se vissute con spirito aperto. E Barilla, brand storicamente legato alla narrazione della famiglia e della convivialità, ha trovato un terreno naturale per esprimere questo racconto. La forza della campagna sta proprio nella scelta di un linguaggio semplice, accessibile, privo di retorica. Non c’è nessun discorso politico esplicito, nessuna retorica da manifesto. Solo il piacere di cucinare insieme, trasformato in metafora universale di rispetto reciproco e incontro culturale.

Tuttavia, non mancano le critiche. Alcuni osservatori hanno sottolineato come il tema dell’inclusione, se veicolato attraverso un contenuto pubblicitario, rischi di apparire superficiale o troppo leggero. Altri, invece, hanno lodato Barilla per aver saputo affrontare un tema complesso con leggerezza e autenticità, senza cadere nella trappola dei moralismi o delle polemiche identitarie. “Open Carbonara” rappresenta un esempio perfetto di marketing etico contemporaneo: un brand che sceglie di raccontare valori universali attraverso uno degli emblemi più riconosciuti della cultura italiana — il piatto di pasta — trasformandolo in un simbolo di apertura e dialogo.

Tra Storytelling e Verità

Dalle famiglie contemporanee, raccontate con delicatezza da Esselunga, fino agli oceani ripuliti da Corona e alle ricette tradotte in venticinque lingue da Barilla, si intravede ormai un percorso chiaro: il pubblico chiede autenticità, azioni concrete, e non esita a premiare o punire i brand in base alla loro coerenza con i valori dichiarati.

Queste tre campagne, diverse eppure legate da un filo comune, dimostrano che, sebbene il rischio di strumentalizzare cause sociali sia reale, quando il marketing riesce a tradursi in azioni tangibili, la pubblicità smette di essere solo una vetrina. Diventa spazio di incontro, di riflessione e, forse, uno strumento capace di imprimere piccoli ma autentici cambiamenti nella società.

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