A cura di Ilaria De Togni
Cosa accadrebbe se la tensione creativa di un artista ottocentesco, fragile e rivoluzionario, avesse incontrato gli strumenti digitali del XXI secolo? Van Gogh, pittore che trasformò il tormento in colore, scrisse centinaia di lettere al fratello Theo in cui cercava parole per decifrare l’abisso tra il suo mondo interiore e la realtà esterna. Quelle lettere, oggi documentate integralmente e conservate presso il Van Gogh Museum di Amsterdam, testimoniano un’urgenza comunicativa che travalica la pittura. In esse emergono il bisogno di confronto, la ricerca ossessiva di consigli tecnici, il desiderio di colmare un vuoto relazionale.
Se un’intelligenza artificiale fosse stata disponibile allora, l’artista avrebbe avuto davanti non solo un interlocutore inesauribile, ma anche un archivio vivente di immagini, cromie e stili a cui attingere. L’AI sarebbe diventata per Van Gogh un compagno affidabile, in grado di offrirgli simulazioni, varianti cromatiche, analisi critiche immediate, senza l’attesa di una lettera che impiegava giorni per arrivare. Ma questo incontro impossibile solleva una domanda bruciante: avrebbe potuto la tecnologia digitale trasformare la sofferenza in un’arma ancora più potente per la creazione, o avrebbe sottratto al genio la sua ferita più feconda?

La creatività analogica di Van Gogh
Vincent van Gogh nacque nel 1853 nei Paesi Bassi, in un’epoca in cui l’arte era segnata da un forte accademismo e da una produzione pittorica dominata da regole formali. La sua formazione fu frammentata e instabile: prima mercante d’arte a L’Aia e a Londra, poi predicatore laico in Belgio, si avvicinò alla pittura soltanto a partire dal 1880, all’età di 27 anni, quasi in ritardo rispetto alla media dei suoi contemporanei.
La sua ricerca creativa non poteva contare su strumenti tecnologici o archivi digitali: per reperire modelli e spunti visivi, Van Gogh frequentava musei, copiava stampe giapponesi e osservava la vita quotidiana nelle campagne o nei quartieri popolari. L’assenza di canali immediati lo obbligava a un esercizio incessante di osservazione diretta e di esercizio manuale.
Un ruolo fondamentale fu giocato dalle lettere al fratello Theo, più di 650, oggi pubblicate integralmente, che rappresentano non solo un documento biografico ma anche un vero laboratorio creativo. In esse, Vincent discuteva di pigmenti, tecniche di pennellata, teoria dei colori, citando trattati pittorici e confrontando le proprie intuizioni con la produzione dei maestri francesi dell’Impressionismo. Il carteggio diventa così la prova tangibile di un artista che trovava nella scrittura il suo archivio, nella memoria il suo motore di ricerca e nella corrispondenza la sua prima piattaforma collaborativa.
L’impossibilità di un accesso rapido a fonti esterne rendeva il processo creativo lento ma profondamente incarnato, ancorato al corpo e all’esperienza sensoriale. È in questo scenario, fatto di silenzi e di ritardi comunicativi, che Van Gogh elaborò le sue tele più potenti, dimostrando che l’assenza di strumenti avanzati può trasformarsi in radicale concentrazione.
Il colore come linguaggio autonomo
Van Gogh concepiva il colore come un linguaggio autonomo, capace di trasmettere emozioni senza bisogno di spiegazioni. Al contrario, paradossalmente, le sue lettere descrivono con precisione la sperimentazione cromatica. Nell’estate del 1888, ad Arles, scriveva di voler dipingere “i cieli gialli come zolfo” e “i campi blu come il cobalto”, ribaltando i codici naturalistici a favore di una visione interiore. Questo approccio, che oggi definiamo espressionista, fu possibile solo grazie a un contatto diretto con i pigmenti, che l’artista studiava con attenzione scientifica. La sua tavolozza comprendeva materiali all’epoca innovativi come il blu oltremare sintetico o il giallo cromo, colori tossici ma capaci di offrire una brillantezza nuova rispetto alle tradizionali terre naturali.

La mancanza di strumenti di simulazione lo costringeva a un processo empirico: ogni variazione di tono doveva essere provata fisicamente sulla tela, con il rischio di fallire e di sprecare pigmenti costosi. Se Van Gogh avesse avuto accesso a un sistema di intelligenza artificiale in grado di generare anteprime cromatiche, avrebbe potuto testare infinite combinazioni in pochi secondi. Tuttavia, l’assenza di questo filtro digitale lo portò a elaborare un tratto immediato e viscerale, fatto di colpi di pennello spessi e vibranti, che ancora oggi trasmettono la fisicità della sua ricerca. È proprio nel limite materiale, nella fatica del gesto ripetuto, che il colore diventa carne viva del suo tormento, trasformando la pittura in una confessione.
Le lettere come “chat” ante litteram e l’ipotesi di un interlocutore AI
Le lettere a Theo furono il vero respiro creativo di Vincent. In quelle pagine si riconosce un artista che pensa scrivendo, traducendo in parole i colori, prima ancora di stenderli sulla tela. È lì che allega schizzi rapidi dei Girasoli, come se la carta potesse farsi testimone del passaggio dalla mente al pennello. È lì che sogna la “Casa Gialla” come comunità di artisti, affidando al linguaggio la costruzione di un’utopia che la realtà gli negherà.
Se avesse avuto accanto un’intelligenza artificiale, quell’attesa lenta e febbrile tra una lettera e la risposta sarebbe stata sostituita da un dialogo immediato. All’angoscia di calcolare i costi dei pigmenti, l’AI avrebbe contrapposto una comparazione istantanea tra fornitori e alternative cromatiche, mostrandogli varianti più economiche. Al bozzetto dei Girasoli inviato al fratello, avrebbe potuto affiancare simulazioni digitali che rielaboravano luce e saturazione, restituendogli in un istante ciò che a lui richiedeva giorni di lavoro empirico.
La scrittura epistolare era per Van Gogh un modo per colmare la solitudine e insieme per fondare un laboratorio interiore. Con un interlocutore artificiale sempre disponibile, quel laboratorio avrebbe assunto una velocità inedita, trasformando l’attesa in azione continua; ma se il silenzio delle lettere fu parte del suo tormento, e quindi del suo genio, cosa sarebbe accaduto se un algoritmo avesse dissolto quel vuoto?
Collisione fra realtà e immaginazione
Tra tutte le opere di Van Gogh, poche incarnano la sua febbre interiore quanto la Notte stellata (1889) e i cicli dei Girasoli (1888–1889). Nella prima, dipinta durante il ricovero a Saint-Rémy, il cielo non è un firmamento ma un vortice cosmico, una spirale che assorbe il villaggio e lo trascina nel suo turbine. Nei secondi, le corolle gialle non sono fiori, ma esplosioni solari, piccole apocalissi domestiche in un vaso di terracotta. È arte che nasce dalla collisione fra realtà e immaginazione, da un gesto che non cerca armonia ma tensione.
Se avesse avuto accesso a un’intelligenza artificiale, Van Gogh avrebbe potuto spingersi ancora più oltre? Forse avrebbe caricato i suoi schizzi serali, ottenendo in pochi istanti anteprime digitali di cieli agitati da milioni di varianti cromatiche, intere galassie simulate fino all’ossessione. L’AI gli avrebbe restituito centinaia di cieli stellati, uno più improbabile dell’altro. I Girasoli, invece, sarebbero stati moltiplicati in un caleidoscopio infinito: petali che si trasformano in lampi, steli che si piegano come fiamme digitali, vasi che oscillano da terracotta a vetro trasparente in un clic. Il confine fra pittura e allucinazione si sarebbe assottigliato fino a dissolversi?
Non lo sapremo mai. Ciò che sappiamo con certezza è che la forza della Notte stellata di Van Gogh risiede proprio nel fatto che ne esiste un’unica versione, irripetibile, concepita in un istante irriducibile. Forse l’AI avrebbe dato voce alle fantasie più sfrenate di Vincent, ma rischiando di togliergli la necessità di scegliere un solo cielo tra i mille possibili.

Van Gogh risponde oggi: un dialogo immaginato attraverso l’AI
Abbiamo chiesto all’intelligenza artificiale di simulare il pensiero di Vincent van Gogh in un’ipotetica intervista, formulando domande che riguardano l’arte e gli strumenti del presente. La simulazione si fonda sul vasto epistolario che l’artista intrattiene con il fratello, in cui si intrecciano riflessioni sul colore, ossessioni quotidiane, fallimenti e illuminazioni. È lì che emergono i lampi della sua mente febbrile: l’urgenza di dipingere come atto vitale, la convinzione che il colore sia un grido, l’ossessione di trasformare la sofferenza in una forma visibile di verità. Non è un oracolo, dunque, ma un esercizio di ricostruzione immaginativa che cerca di dare corpo al pensiero di Vincent.
Queste sono le domande – e le risposte che l’AI ha elaborato.
Vincent, cosa pensi dell’arte contemporanea?
«L’arte che non rischia è mobilio di lusso. Non mi interessa la superficie patinata, né le cornici che brillano più del dipinto. L’arte deve inquietare, deve farsi ricordare come una ferita. Se un’opera non mette in discussione chi la guarda, allora non è arte: è un accessorio. Io credo solo a ciò che nasce da un’urgenza, non da un calcolo.»
Quindi se non ho capito male non ti piace l’arte contemporanea, ritieni che sia fine a se stessa? E cosa ne pensi di artisti rivoluzionari come Banksy?
«Non mi interessa dividere l’arte in vecchia o nuova. Mi interessa capire se un gesto nasce per dire qualcosa o per vendere qualcosa. Chi riesce a incidere nel muro di una città con la stessa rabbia con cui altri incidono sulla tela, quello per me è un artista. Se dietro lo scandalo c’è un pensiero, lo riconosco come compagno di battaglia.»
E dell’AI come strumento creativo, che cosa ne pensi?
«L’AI non sarebbe il mio rivale, ma il mio specchio. Le chiederei di mostrarmi in un istante mille possibilità, per poi distruggerne novecentonovantanove e salvarne una soltanto. Non la userei per sostituire il mio gesto, ma per sfidarlo. L’arte non nasce dall’efficienza: nasce dal conflitto. L’AI può accelerare il pensiero, ma non potrà mai sostituire la mano che trema davanti a una tela vuota.»
E i social, se tu vivessi oggi, come li useresti?
«Non diventerei un intrattenitore. Non mi interesserebbe collezionare “mi piace”: mi interessa che qualcuno resti turbato, non che applauda. Userei i social come un’esplosione breve: un’immagine, una frase, un pugno nello stomaco. Poi silenzio. Non mi presterei al flusso continuo: è veleno per chi cerca verità. Preferirei che un solo sconosciuto comprendesse la mia inquietudine, piuttosto che mille mi guardassero distrattamente.»
Vuoi dare un consiglio ai giovani artisti?
«Non abbiate paura di fallire. Il fallimento è il vostro vero maestro. Non rincorrete il consenso: è una trappola che vi farà creare a metà. L’AI può suggerirvi scorciatoie, ma non lasciate che vi tolga il diritto di sbagliare perché è l’errore che vi renderà unici. Non cercate di essere moderni, cercate di essere necessari.»
Che cosa dipingeresti, oggi, del mondo contemporaneo?
«Ritrarrei l’umanità piegata su uno schermo luminoso, con il cielo notturno ignorato alle loro spalle. Mostrerei volti che brillano di luce artificiale mentre le stelle vere si spengono nel silenzio. Dipingerei supermercati colmi di cibo e persone che hanno ancora fame, città illuminate dove regna la solitudine, e nei margini un campo di grano: fragile, ostinato, eterno. Perché tutto il progresso non può cancellare il bisogno di sentirsi vivi davanti a un orizzonte.»
