Perché Starbucks non funziona in Italia? 

Il fatto che un gruppo globale abbia atteso  oltre quarant’anni per sbarcare in Italia  rappresenta già un indicatore della complessità del mercato.

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18 Novembre, 2025

In Italia il caffè non è una bevanda, ma una grammatica dell’identità. È il gesto che apre la giornata, il pretesto per un incontro, la pausa che separa il dovere dal piacere. Dietro quell’espresso, bevuto al banco in pochi secondi o gustato con calma come rito, c’è un intero sistema simbolico: appartenenza, misura, continuità. Il bar italiano è un microcosmo democratico dove professionisti, studenti e pensionati condividono un rito accessibile e codificato.

Poi arriva Starbucks, con un modello che impone un’altra idea di caffè: il third place dove si resta, si lavora, si fotografa. Tazze grandi, bevande iper-personalizzate, menu stagionali, nome sul bicchiere, take-away e wi-fi come standard. Il bar italiano vive invece di rapidità al banco, tazzina piccola, rapporto diretto col banconista, prezzo contenuto e rotazione continua. Là il caffè è esperienza stanziale e narrativa; qui è gesto funzionale e comunitario. Due tempi, due economie, due simboliche opposte.

Può un marchio globale adattarsi davvero a un Paese che nel caffè non cerca l’esperienza, ma l’appartenenza?

L’arrivo tardivo nel mercato italiano

L’ingresso nel mercato italiano da parte di Starbucks avvenne soltanto nel settembre 2018, con l’apertura della sua prima sede italiana – la Reserve Roastery (in foto Ndr) – situata in pieno centro a Milano, in Piazza Cordusio. Il fatto che un gruppo globale presente in decine di paesi abbia atteso oltre quarant’anni per sbarcare in Italia rappresenta già un indicatore della complessità del mercato.

Nella costruzione della strategia di ingresso, Starbucks annunciò di muoversi con «umiltà e rispetto» nei confronti della cultura italiana del caffè, riconoscendo che il Paese è «la patria dell’espresso». Contestualmente, fu siglata una partnership con l’operatore italiano Percassi per le aperture future e per l’adattamento locale del format.

Il format inaugurale fu imponente: circa 2.300 m², in un prestigioso edificio storico, con proposte di caffè “small-lot”, panetteria artigianale di un noto marchio italiano, zona lounge e design sofisticato. In quanto investimento simbolico assunse il ruolo di “gioiello” del marchio per l’Europa.

Sul fronte economico, va notato che in Italia si stimavano circa 57.000 bar/caffetterie, con una media di circa un locale ogni 1.000 abitanti, al momento dell’ingresso di Starbucks. Inoltre, la Federazione Nazionale delle imprese di ristorazione stimava circa sei miliardi di espressi serviti annualmente nel Paese. Questi dati indicano un tessuto di consumo già estremamente denso e radicato, con bar indipendenti e di quartiere che operavano su modelli di prezzo molto contenuti (intorno a 1 € per espresso).

Questa “entrata tardiva” e il contesto preesistente suggeriscono due punti chiave: primo, Starbucks riconobbe implicitamente che l’Italia rappresentava un ambiente molto più difficile rispetto ad altri paesi, richiedendo un approccio calibrato; secondo, la forte penetrazione della cultura del bar espresso italiano che ponevano una soglia elevata al cambiamento delle abitudini e dei modelli distributivi. Resta da interrogarsi: quanto questo posizionamento simbolico e strategico abbia effettivamente consentito al marchio di superare le barriere culturali ed economiche del mercato italiano?

Il rito quotidiano dell’espresso italiano

In Italia il caffè non è un prodotto, ma un’abitudine sociale capillare. Il 97 % degli italiani dichiara di berlo quotidianamente, in media tre volte al giorno, e oltre il 70 % preferisce consumarlo fuori casa. Il formato dominante è l’espresso: rapido, servito al banco; e ogni anno si stimano più di 14 miliardi di espressi serviti.

Alla luce di questi dati è evidente che il bar, in Italia, è un’infrastruttura sociale prima che economica: il luogo dove si intrecciano le micro-relazioni quotidiane. L’esperienza si esaurisce in pochi minuti, senza tempi morti né sovrastrutture estetiche. Il consumo avviene principalmente in piedi, il contatto col banconista è diretto, la fidelizzazione si basa sulla conoscenza reciproca, non sulla costruzione di una brand experience.

Il caffè, per gli italiani, non è un prodotto da abitare ma un gesto da reiterare: la qualità è tanto nella sostanza del prodotto quanto nella costanza, non nell’omologazione del gusto e nella sorpresa.

Questo modello – economico, culturale e simbolico – spiega la solidità del sistema dei bar italiani, ma anche la sua impermeabilità all’innovazione. La ritualità dell’espresso costituisce una forma di resistenza al consumo esperienziale. Ogni tentativo di estendere il tempo, alzare il prezzo o trasformare il gesto in intrattenimento entra in collisione con la logica di efficienza e continuità che regge la cultura del caffè nel Paese.

Il modello Starbucks: global branding, esperienze premium e logiche di retail

Il modello Starbucks nasce negli Stati Uniti negli anni Settanta e si consolida negli anni Novanta come uno spazio ibrido tra casa e lavoro, dove il consumo diventa esperienza prolungata. In questa logica, il caffè non è più un prodotto ma un pretesto per trattenersi, socializzare, lavorare o semplicemente “stare”. La redditività non dipende dal numero di espressi serviti in un minuto, ma dalla permanenza media dei clienti e dall’alto valore dello scontrino. Il prezzo diventa così segnale di appartenenza a una community globale e di partecipazione a uno stile di vita “premium”.

Ogni elemento è calibrato per costruire un’esperienza immersiva: il nome del cliente sul bicchiere, la possibilità di personalizzare ogni bevanda, la musica selezionata, il design caldo e riconoscibile, l’offerta stagionale e “fotografabile”. È un linguaggio visivo e comportamentale pensato per la condivisione digitale, più che per il rito tradizionale. L’efficacia del modello sta nella capacità di trasformare un atto banale come quello di bere un caffè in un’esperienza identitaria e instagrammabile, prolungando il tempo medio di permanenza e moltiplicando il valore per cliente.

Dal punto di vista economico, Starbucks opera con margini unitari elevati, ma con una struttura di costi altrettanto alta: grandi superfici, personale numeroso, formazione standardizzata e catena logistica centralizzata. In mercati abituati a scontrini minimi e consumo rapido come quello italiano, questo modello incontra ostacoli strutturali: il differenziale di prezzo, spesso cinque volte superiore a un espresso tradizionale, e la diversa percezione del tempo rendono difficile la scalabilità. 

In Italia, dove il caffè è un bene quotidiano e non un’occasione, la strategia “premium experience” si traduce in un posizionamento di nicchia, più affine al turismo internazionale che alla routine locale. 

Strategia di adattamento 

Consapevole dell’impermeabilità culturale del mercato italiano, Starbucks ha scelto un ingresso calibrato: non imitare, ma reinterpretare. Le nuove aperture rappresentano dei laboratori di posizionamento più che punti vendita. L’azienda ha presentato l’arrivo in Italia come un “atto di rispetto” verso la patria dell’espresso, dichiarando di voler «imparare prima di insegnare». Per farlo, ha costruito un’architettura ibrida: tecnologia americana e artigianalità italiana, torrefazione a vista, collaborazione con marchi locali di panetteria e pasticceria.

Il primo partner strategico scelto per lo sviluppo in Italia è stato il gruppo Percassi, già attivo nel retail con brand come Kiko Milano e Victoria’s Secret. L’accordo prevedeva un’espansione progressiva e selettiva, evitando la logica della diffusione di massa. A distanza di sette anni, i punti vendita restano poco più di una trentina, concentrati nelle principali città turistiche e con un modello di business orientato a un pubblico misto: turisti internazionali e giovani italiani cosmopoliti.

Dal punto di vista dell’offerta, Starbucks ha introdotto elementi di localizzazione mirata: nel menù compaiono espresso e cornetti italiani. Tuttavia, l’adattamento resta superficiale. L’espresso di Starbucks mantiene un profilo gustativo e un prezzo non competitivo rispetto ai bar locali; il servizio al tavolo sostituisce la ritualità del banco, e il concetto di “pausa lunga” rimane estraneo alla cultura del caffè italiana.

L’azienda tenta così un equilibrio tra distinzione e assimilazione: da un lato la coerenza con l’immagine globale del marchio, dall’altro la necessità di mostrarsi adattabile a un Paese dove il caffè è un patrimonio collettivo. Ma la localizzazione parziale rischia di collocarla in una terra di mezzo: troppo americana per i puristi, troppo tradizionale per i giovani digitali che cercano esperienze nuove.

Un mercato impermeabile: perché il bar italiano resiste alla globalizzazione del caffè?

Il modello globale di Starbucks, esperienziale, estetizzato, ad alto margine e basso ricambio, si scontra con un sistema che funziona per volume e continuità. L’espresso resta il linguaggio del quotidiano, non dell’eccezione.

Ogni tentativo di “nobilitare” il caffè con storytelling o premium experience si infrange su un principio semplice: per gli italiani, il valore sta nella normalità del rito, non nella sua messa in scena.

Starbucks non ha fallito: ha semplicemente incontrato un Paese che non ha bisogno di essere educato al caffè. Ed è proprio questa impermeabilità, paradossalmente, a rappresentare la sua forza: la dimostrazione che, in un mondo globalizzato, esistono ancora riti capaci di resistere all’omologazione.

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