McDonald’s e la “divisa del sorriso” che inizia a stare troppo stretta

Se da un lato il volto sempre accogliente favorisce fiducia, fidelizzazione e un’esperienza cliente percepita come positiva, dall’altro l’obbligo di sorridere anche in condizioni di stress produce effetti collaterali non trascurabili.

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24 Ottobre, 2025

Nel panorama attuale delle risorse umane e della comunicazione d’impresa, poche strategie risultano tanto iconiche quanto quella del sorriso di McDonald’s. Il gigante planetario del fast food ne ha fatto una cifra identitaria: il sorriso non come semplice gesto di cortesia, ma come parte stessa della divisa, emblema tangibile di un impegno costante all’ospitalità e alla cura del cliente. Una scelta che ha inciso profondamente sull’immaginario collettivo, trasformando l’atto più elementare dell’espressione umana in un dispositivo strategico di branding.

Ma fino a che punto, oggi, questa imposizione funziona ancora? E soprattutto, quale prezzo paga chi quel sorriso deve indossarlo ogni giorno? Perché se da un lato il volto sempre accogliente favorisce fiducia, fidelizzazione e un’esperienza cliente percepita come positiva, dall’altro l’obbligo di sorridere anche in condizioni di fatica, stress o disagio produce effetti collaterali non trascurabili: aumento della pressione psicologica e rischio di burn-out.

Service with a Smile: Quando il sorriso è performance

«Non basta compiere correttamente un compito: 
occorre mostrarlo nel modo giusto. 
La cortesia, in questa logica, 
diventa un parametro di performance, 
al pari di velocità e precisione».

Arlie Hochschild

Il principio del “service with a smile” ha radici profonde nella cultura dei servizi e, nel settore del fast food, McDonald’s ne rappresenta l’archetipo più riconoscibile. A codificarne i meccanismi è stata Robin Leidner, nel volume Fast Food, Fast Talk: Service Work and the Routinization of Everyday Life (1993), in cui descrive come i dipendenti della catena fossero istruiti a salutare il cliente con un sorriso e con un atteggiamento costantemente amichevole, indipendentemente dal proprio stato emotivo. Non un gesto spontaneo, dunque, ma una prescrizione integrata nei manuali aziendali e nello script quotidiano di interazione.


La Leidner documenta come, tra gli anni Ottanta e Novanta, questa regola implicita fosse già consolidata nei fast food americani. Slogan interni, sessioni di training e manuali operativi prescrivevano posture positive, saluti standardizzati, sorrisi obbligatori: un facial display codificato, concepito come parte del servizio. In McDonald’s, la regolamentazione delle interazioni faccia a faccia arrivava fino al dettaglio estetico delle espressioni, trasformando il sorriso da segno di autenticità a marchio di fabbrica.

Questa dinamica si inserisce nel quadro concettuale elaborato già alla fine degli anni Settanta da Arlie Hochschild, che coniò l’espressione emotional labor: la gestione professionale delle emozioni e delle espressioni come parte integrante della prestazione lavorativa. Non basta compiere correttamente un compito: occorre mostrarlo nel modo giusto. La cortesia, in questa logica, diventa un parametro di performance, al pari di velocità e precisione.

Lo stigma del McJob

Il termine “McJob”, comparso negli anni Novanta e consolidatosi nel lessico anglosassone, è divenuto un simbolo di svalutazione del lavoro nei fast food. La sua diffusione – fino a essere registrato nei principali dizionari come sinonimo di occupazione mal pagata, priva di prospettive e basata su mansioni ripetitive – ha impresso un marchio difficile da rimuovere. Non si tratta soltanto di una questione salariale: il concetto ingloba l’idea di un’occupazione che richiede standard rigidi di comportamento, inclusi quelli emotivi, senza però restituire reali margini di autonomia, riconoscimento o crescita professionale.
Per McDonald’s, leader globale del fast food, la questione non riguarda più soltanto la qualità del servizio o le metriche di customer satisfaction: è diventata un terreno di confronto diretto con l’opinione pubblica. Le campagne di employer branding, con iniziative locali che raccontano dipendenti come protagonisti di carriere rapide, stipendi puntuali e percorsi di formazione certificata, hanno tentato di ribaltare lo stereotipo del “McJob”, presentando il ristorante come luogo di lavoro dignitoso e generatore di competenze trasferibili, eppure, nonostante gli sforzi, lo stigma rimane. 
Da un lato, McDonald’s continua a essere percepito come un trampolino d’ingresso nel mondo del lavoro per i giovani; dall’altro, come simbolo di precarietà e di riduzione dell’esperienza umana a un copione standardizzato. È qui che il tema del sorriso forzato riemerge con tutta la sua forza polemica: in un clima di crescente attenzione al benessere lavorativo, l’idea di imporre un’emozione come parte della divisa appare oggi più che mai un’ipocrisia difficile da mascherare.

Il lavoro emotivo forzato 

In Giappone, il sorriso è da decenni un marchio di fabbrica del servizio clienti, al punto da essere trasformato da McDonald’s in slogan: “Smile for 0 yen”, l’ospitalità gratuita, disponibile in ogni ristorante. Inserito persino nei menu come promessa di accoglienza, lo slogan venne rilanciato nel 2015 dopo un periodo di assenza, a testimonianza del suo valore simbolico. Ma quello che per lungo tempo è stato percepito come un gesto rassicurante ha finito per dividere l’opinione pubblica: sui social, molti continuano a considerarlo uno standard di servizio apprezzabile, mentre crescono le critiche che lo bollano come esempio di lavoro emotivo forzato, ossia la richiesta al personale di reprimere emozioni autentiche per mostrare un atteggiamento sempre positivo.
La pressione a sorridere in ogni circostanza è stata negli ultimi anni messa in discussione per i suoi effetti psicologici, con un carico mentale che rischia di trasformare la cortesia in stress psicofisico. Secondo i dati diffusi da McDonald’s Japan, oltre il 60% dei dipendenti ha meno di 24 anni, e proprio tra i giovani la pratica del sorriso obbligatorio viene percepita come un ostacolo a candidarsi.

McDonald’s Japan e il successo della campagna “No Smiles”

Nel 2023 McDonald’s Japan ha scelto di sfidare uno dei suoi simboli più radicati, quel “Smile for 0 yen” che per decenni aveva incarnato l’idea di accoglienza a costo zero, e lo ha fatto con una campagna dal titolo eloquente: “No Smiles”. Non una negazione polemica, ma una provocazione semantica pensata per dialogare con la Generazione Z, più sensibile ai temi dell’autenticità e meno disposta a indossare maschere emotive sul posto di lavoro.

Il progetto ha lanciato un messaggio in controtendenza: non tutti i ruoli richiedono un sorriso costante, e la professionalità non coincide con l’obbligo di mostrare un volto sempre compiaciuto.

A rafforzare questa presa di posizione è stata la collaborazione con la cantante Ano, la cui canzone “Smile Agenai(“non ti do un sorriso“), esprimeva con chiarezza il nuovo paradigma: «Va bene iniziare da ciò che sai fare, senza forzarti».

Una dichiarazione che ha intercettato con precisione la ricerca di autenticità dei giovani lavoratori.
L’effetto è stato immediato. Sul fronte ufficiale, McDonald’s Japan ha attribuito a No Smiles un impatto diretto sull’attrattività del lavoro tra i giovani: nel 2023 le candidature complessive per le posizioni da “crew” sono cresciute del +115% su base annua, secondo i dati diffusi dall’azienda. Lo stesso comunicato sottolineava l’intento di promuovere la “diversità dei modi di lavorare”, valorizzando la possibilità per ciascuno di portare sé stesso all’interno del servizio. E, nel 2025, l’azienda ha ribadito che l’effetto positivo sul recruiting si è consolidato e ha precisato che circa il 60% della forza lavoro nei ristoranti è oggi costituito da under-24.

Come ha spiegato l’azienda, «abbiamo aggiornato il valore di ‘Smile for 0 yen’ per adattarlo ai tempi: il sorriso resta un gesto di ospitalità, ma vogliamo anche mostrare empatia verso i sentimenti dei giovani». Con “No Smiles” (スマイルあげない), McDonald’s Japan ha ridefinito così il proprio employer branding: non più il sorriso come obbligo uniforme, ma come scelta personale, restituita alla libertà del lavoratore.

Dal “Work with your smile” al “Work with your style”

Nei case-study diffusi da TBWA\Hakuhodo e dalle piattaforme che hanno premiato la campagna, emerge un dettaglio significativo: prima di lanciare “No Smiles”, McDonald’s Japan avrebbe rivisto in profondità criteri di selezione e manuali operativi, con l’obiettivo dichiarato di rendere l’ambiente più vicino alle sensibilità della Generazione Z. Il passaggio chiave è semantico ma sostanziale: dall’imperativo “Work with your smile” alla formula più inclusiva Work with your style”. Non si tratta di un abbandono del sorriso in senso assoluto, ma della rimozione del suo carattere prescrittivo: il volto disteso non come obbligo performativo, bensì come scelta autentica e libera espressione individuale.

Customer Harassment: quando l’obbligo del sorriso diventa molestia

Può un semplice «per favore, sorridi» rivolto al personale di un negozio configurarsi come una forma di molestia? In Giappone la risposta non è univoca, ma il dibattito è ormai acceso. Un sondaggio recente ha rivelato che il 45,7% degli intervistati considera questa pratica una forma di “customer harassment”, termine che identifica comportamenti invadenti o vessatori da parte dei clienti verso i lavoratori.
Perfino aziende che per decenni hanno promosso il sorriso come standard irrinunciabile del servizio stanno iniziando a riconsiderarne il valore. Nell’aprile scorso, diverse municipalità – tra cui Tokyo – hanno introdotto ordinanze specifiche contro la customer harassment, rafforzando le misure di tutela.
Resta tuttavia da capire quanto questa nuova sensibilità sia realmente interiorizzata dall’opinione pubblica.
Il sondaggio, condotto a marzo dalla società Helpfeel Inc. di Kyoto – sviluppatrice di strumenti digitali per il customer service – ha coinvolto 1.070 cittadini giapponesi tra i 20 e i 60 anni. Agli intervistati è stato chiesto di valutare dieci scenari tipici del rapporto con il personale nei negozi, stabilendo se potessero essere considerati o meno forme di molestia.
L’atto di chiedere al personale di sorridere ha diviso nettamente le opinioni: se, come abbiamo visto, il 45,7% lo ha giudicato inaccettabile, il restante 54,3% non lo ha ritenuto problematico. Curiosamente, non sono emerse differenze significative tra le diverse fasce d’età, a testimonianza di una frattura culturale più che generazionale.

Non è la prima volta che Helpfeel indaga il fenomeno. Già nell’ottobre dell’anno precedente, un’indagine simile aveva evidenziato come molte persone percepissero come molesto anche il semplice invito a “essere più gentili”. Per questo, nell’ultima rilevazione è stato incluso esplicitamente il “sorriso” come esempio paradigmatico di comportamento atteso.Commentando i risultati, un rappresentante di Helpfeel ha osservato: “Molti pensano che i dipendenti provino una resistenza crescente all’essere costretti a mantenere un atteggiamento di servizio costantemente positivo.” Un segnale chiaro che l’idea del sorriso obbligatorio non è più percepita come un gesto neutro, ma come una pressione psicologica che rischia di oltrepassare la soglia del rispetto.

McDonald’s Italia: tra spot occupazionali e storytelling del lavoro

Se in Giappone la svolta è stata netta – con l’abolizione del sorriso obbligatorio e la nascita della campagna “No Smiles”, pensata per liberare i giovani lavoratori dalla maschera emotiva – in Italia non si è mai arrivati a una simile radicalità. Le campagne di McDonald’s sul nostro territorio non hanno messo al centro il dibattito sull’emotional labor, ma hanno piuttosto puntato a trasformare il lavoro stesso in narrazione pubblicitaria.
Tra il 2012 e il 2014 McDonald’s Italia inaugura infatti una strategia comunicativa che intreccia marketing e risorse umane, trasformando i dipendenti in veri e propri protagonisti di brand storytelling. Il caso più emblematico è The Ice Cream Song, video diffuso sui canali ufficiali e corredato da un backstage, in cui i crew reali cantano e inscenano momenti di servizio: un utilizzo esplicito del personale come media asset, pensato per generare coinvolgimento e rafforzare la percezione di vicinanza al brand.

Questa iniziativa può essere letta come esempio di testo espanso multicanale: video, materiali punto vendita e contenuti digitali convergono all’interno di un unico frame narrativo, dove la frontline non rimane dietro le quinte ma diventa parte integrante dell’icona di marca. Non si promuove un singolo prodotto, ma la capacità del brand di mettere in scena il lavoro stesso dentro il ristorante, con una regia coerente ai linguaggi e alle metriche dei media sociali. Non siamo dunque avanguardisti come il Giappone nel riconsiderare il costo psicologico del sorriso imposto; ma l’Italia ha sperimentato un’altra forma di ibridazione: il passaggio dal prodotto al lavoratore come asset narrativo. Qui l’employer branding non ha cercato di allentare pressioni emotive, bensì di valorizzare il dipendente come simbolo di prossimità e strumento di engagement.

Il costo invisibile del sorriso

Per valutare davvero l’efficacia della strategia del “sorriso a ogni costo” non basta misurarne l’impatto sul cliente: occorre indagare le ricadute sui lavoratori e, di riflesso, sulla reputazione stessa del brand come datore di lavoro. Le ricerche di psicologia organizzativa lo dimostrano con chiarezza: l’emotional labor prolungato – l’obbligo di esibire emozioni non coerenti con lo stato interiore – genera dissonanza emotiva, aumentando i livelli di stress, il rischio di burnout e l’assenteismo (Brotheridge & Grandey, 2002; Hülsheger & Schewe, 2011). 

Nelle catene di ristorazione veloce, segnate da ritmi serrati e margini di autonomia ridotti, il sorriso imposto si configura come un vero e proprio fattore di rischio psicosociale.
Dal punto di vista aziendale, i vantaggi immediati sono indiscutibili: un sorriso standardizzato migliora la percezione di cordialità, innalza gli indici di customer satisfaction e rafforza l’immagine di un servizio familiare e accessibile. Ma il conto, meno visibile, si paga altrove: turnover elevato, costi costanti di formazione per rimpiazzare chi lascia, e un potenziale danno reputazionale quando l’azienda viene percepita come insensibile al benessere del personale. Non a caso rapporti dell’International Labour Organization e di enti nazionali per la salute sul lavoro hanno più volte segnalato la correlazione fra pressione emotiva e difficoltà di retention nei settori a forte esposizione al pubblico.

Il modello può reggere solo entro condizioni precise: supporto organizzativo adeguato, percorsi di crescita chiari, politiche di tutela del benessere e la possibilità per i dipendenti di vivere il sorriso non come imposizione, ma come parte di una cultura di servizio condivisa. Laddove questi elementi mancano, il beneficio immediato per il cliente evapora rapidamente, sostituito da un ciclo di insoddisfazione interna che finisce per incrinare la stessa immagine esterna del marchio.


Articolo a cura di Ilaria De Togni

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