La Creator Economy ha bisogno di un reset?  Il costo umano dell’algoritmo

Nell’estate del 2021, il Washington Post pubblicava il ritratto impietoso di Tyler Steinkamp, streamer ventiseienne di Twitch, milionario autodidatta, che confessava un sogno apparentemente paradossale: «quanto dev’essere bello lavorare in un cubicolo».

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30 June, 2025

Un ragazzo che, invece di crogiolarsi nel privilegio di vivere di contenuti digitali, bramava la grigia e protetta regolarità dell’ufficio tradizionale. Non una provocazione, ma la confessione di una condizione tanto diffusa quanto misconosciuta: la stanchezza cronica, quasi patologica, che sta divorando la spina dorsale stessa dell’economia dei creator.

Una costellazione crescente di articoli, negli ultimi anni, ha acceso i riflettori su un interrogativo cruciale: questa macchina luccicante chiamata “creator economy” è davvero sostenibile per chi la alimenta? O, sotto il luccichio degli schermi, si cela un meccanismo insaziabile, che fagocita creatività, salute mentale e vite intere?

Il mito dell’indipendenza creativa

Sulla carta, la creator economy è il sogno capitalistico perfetto: guadagnare facendo ciò che si ama. Che sia “streammare” partite su Twitch o girare sketch su TikTok. Un sistema teoricamente democratico, dove il talento – almeno così si racconta – trova finalmente la sua platea, bypassando intermediazioni e vecchie gerarchie industriali. Eppure, la realtà è tutt’altro che idilliaca. Il modello di business di piattaforme come TikTok e Twitch esige una produzione incessante, senza tregua. Non basta essere bravi: serve essere costanti. E la costanza, in questo mercato, ha il volto di un sorvegliante inflessibile.

La logica dell’algoritmo è: non fermarsi mai

La regola è semplice e crudele: se un creator rallenta, se si ferma, il pubblico se ne va. E, con il pubblico, gli introiti.

La logica dell’algoritmo impone la sua tirannia. Ma creare diventa un mestiere a ROI basso, se rapportato all’energia che divora. Una spirale di performance, in cui ogni giorno è una battaglia per restare rilevanti. I numeri – views, likes, subscriber – non sono solo metriche di vanità. Sono la misura di ciò che si mangia, di ciò che si paga, di quanto vale il lavoro. E quando l’attenzione è la valuta più preziosa, l’erosione della salute mentale è il tributo silenzioso che si paga sull’altare dell’engagement.

La musica come contenuto “usa e getta”

Particolarmente spietato è lo scenario per chi, come gli artisti musicali, deve conciliare la creazione artistica con le pretese di un mercato ipersaturo e insaziabile. Nel mondo musicale dominato da singoli che si susseguono a ritmo vertiginoso, “l’invecchiamento” è rapidissimo. Rilasciare musica non è più un atto creativo, ma una forma di sopravvivenza.

L’artista medio è costretto a riversare tempo e risorse non solo nella produzione musicale, ma in un ecosistema parallelo di contenuti accessori: video su TikTok e storie su Instagram. Ciò significa che meno tempo resta per l’essenza stessa del mestiere: scrivere, comporre, sperimentare.

Gli artisti di calibro planetario, come Adele o Kendrick Lamar, possono ancora permettersi anni di silenzio tra un album e l’altro. Ma questa è un’eccezione rara. Per la stragrande maggioranza, sparire significa morire. Significa scivolare nel buio digitale dove nessun algoritmo è disposto a cercarti.

Quando la trasparenza non è un valore aggiunto

C’è poi un effetto collaterale sottile, ma devastante: la perdita del mistero. Nella retorica contemporanea, condividere il “dietro le quinte” è considerato un valore aggiunto. Far entrare i fan nel laboratorio creativo dovrebbe aumentare il legame emotivo e il coinvolgimento, e in parte è vero: il pubblico ama sentirsi parte del processo. Ma esiste un confine delicato tra connessione e sovraesposizione. Mostrare troppo significa distruggere quell’aura di ambiguità e interpretazione libera che, spesso, è il cuore dell’arte. Quando ogni passaggio creativo viene spiegato, condiviso, sezionato in diretta social, resta poco spazio per il mistero. E con il mistero svanisce anche il potere di evocazione che rende un’opera indimenticabile.

Duty of care

La cultura dei creator è, tutto sommato, un fenomeno ancora giovane. Secondo il Gartner Hype Cycle, si trova oggi nel cosiddetto «picco delle aspettative gonfiate», quella fase in cui una novità tecnologica o sociale è circondata da un entusiasmo e da attese spesso sproporzionate. Non sorprende, dunque, che la creazione di contenuti sia spinta oggi verso gli estremi più esasperati. Tuttavia, è probabile che il ritmo frenetico dell’industria rallenterà nel tempo, trovando un equilibrio più sostenibile. Ma questa eventualità futura non esime il settore degli strumenti per i creator – le piattaforme, i servizi, gli ecosistemi digitali – dal dovere di porsi una domanda fondamentale: può un modello di business basarsi esclusivamente sulla creazione incessante? E, soprattutto, può essere considerato sano per la mente di chi quei contenuti li produce?

Come già avvenuto nell’industria musicale, anche la creator economy dovrebbe riconoscere un principio essenziale: la responsabilità di tutela nei confronti dei propri protagonisti. Una “duty of care” che, se non rispettata, rischia di mandare in frantumi l’intero sistema, alimentando frustrazione e risentimento proprio tra coloro ai quali questa economia dovrebbe offrire opportunità e prosperità.

La sostenibilità culturale nella creator economy

I creator-artisti necessitano di strumenti specifici per costruire fan, non semplici follower. Fan disposti a rimanere accanto al loro artista anche nei momenti di silenzio creativo, capaci di sostenere il percorso artistico anziché pretendere un flusso incessante di contenuti. È qui che entrano in gioco piattaforme e funzionalità pensate per alimentare la community anche in assenza del creator stesso: come i server Discord dedicati ai fan, o la nuova funzione “supporter badge” introdotta da Audiomack, che consente ai fan di dichiarare pubblicamente il proprio sostegno e instaurare legami più profondi.

Un’altra idea innovativa, proposta di recente da MIDiA, è la concessione di una sorta di “creator right”: il diritto di monetizzare non solo il prodotto finale – la canzone, il video, l’opera – ma anche il tempo stesso del creator. Sarebbe un passo coraggioso verso un modello più sostenibile, che riconosca il valore intrinseco del lavoro creativo, indipendentemente dalla quantità di contenuti generati.

Il 78% dei creator ammette il burnout

L’allarme ha numeri concreti. Il recente State of Create Report fotografa una realtà impietosa: il 78% dei creator ammette che il burnout sta minando la motivazione a restare in questo mestiere. Non si tratta solo di stress passeggero, ma di una stanchezza endemica, figlia di un paradosso dannoso: la corsa al successo online, pensata come la via verso la libertà, si sta trasformando nella gabbia dorata della nuova economia dell’attenzione.

Molti di questi creatori non erano partiti inseguendo algoritmi o metriche. Volevano connettersi, creare, dare un senso. Fare la differenza, anche solo nel piccolo universo dei propri fan. Ma qualcosa si è spezzato lungo la strada. La necessità di “essere ovunque, sempre” ha inghiottito la scintilla iniziale.

Non basta più “andare virali”. Serve durare.

Cinque anni fa, il sogno si misurava in numeri: follower, like, share, visualizzazioni. Oggi, molti creator stanno spostando il baricentro verso priorità nuove: la qualità della propria opera, relazioni più profonde con la community, e – soprattutto – una stabilità economica meno schizofrenica. Non basta più “essere virali”. Serve durare.

Questo perché molti si sono resi conto che il mito del self-made creator, libero e indipendente, è costruito su una narrativa imperfetta: «basta talento e dedizione, e il successo è alla portata di chiunque». Ma dietro quella patina di empowerment si cela una verità più sinistra: l’algoritmo non perdona.

Chi rallenta, chi scompare anche solo per qualche giorno, scivola nell’oblio digitale. L’algoritmo premia la costanza ossessiva, il flusso perpetuo. Non riconosce qualità e contesto. La conseguenza è una cultura professionale fondata sulla sorveglianza di sé stessi: ogni gesto, ogni pensiero, ogni giornata è potenzialmente contenuto monetizzabile.

Crescere o costruire?

C’è una differenza sostanziale, enorme, eppure spesso ignorata, tra far crescere un pubblico e costruire una community. E i creator più intelligenti, quelli sopravvissuti agli uragani dell’algoritmo, hanno capito che non si tratta di una scelta binaria. Si può crescere e, insieme, costruire legami autentici.

La crescita può ampliare la portata, far conoscere un talento al mondo. Ma la vera longevità professionale non nasce da milioni di follower distratti, bensì da uno zoccolo duro di fan che non si limitano a “seguire”, ma partecipano, sostengono, restano.

È una verità confermata dai numeri: secondo il State of Create Report, l’80% dei fan più fedeli sarebbe disposto a pagare per i creator che ama. E non si parla solo di piccole mance digitali: si tratta di economie significative, capaci di mantenere in vita interi progetti creativi. Le attività creative più solide non si costruiscono sulla viralità effimera, ma su relazioni profonde con persone che apprezzano il lavoro di un creator e vogliono accompagnarlo nella sua crescita.

In fuga dal rumore: il caso Patreon

Joshua Fields Millburn non è un nome qualunque nel panorama digitale. Scrittore, saggista e regista, è il co-fondatore di The Minimalists, il duo che con Ryan Nicodemus ha trasformato il minimalismo in un fenomeno globale, attraverso libri bestseller, un podcast seguito da milioni di ascoltatori e il documentario Netflix “Minimalism: A Documentary About the Important Things.” Eppure, nonostante il successo, Millburn ha scelto di tirare il freno. Con il suo team, si è preso un intero anno lontano dai social network. Una decisione coraggiosa in un mondo dove sparire dai radar digitali significa spesso perdere pubblico, opportunità e ricavi. Ma non è andata così.

Durante quell’anno di “silenzio social”, Millburn ha continuato a dialogare con i propri sostenitori attraverso Patreon, piattaforma che consente ai creator di costruire una relazione diretta con chi li segue, lontano dai filtri e dalle priorità imposte dagli algoritmi delle grandi piattaforme.

Patreon, infatti, offre strumenti pensati per garantire autonomia ai creator: abbonamenti mensili, pagamenti una tantum, chat private, eventi live, contenuti riservati. Non si tratta solo di guadagnare soldi, ma di mantenere viva la relazione con chi davvero apprezza il lavoro creativo. Un luogo dove la comunicazione è più personale, meno dispersa nel caos delle bacheche social.

Quello che emerge con chiarezza – anche dai dati del recente State of Create Report – è che i fan più affezionati non sono semplici spettatori. Sono parte attiva del percorso creativo: partecipano, sostengono economicamente, condividono idee. E questo rende la differenza tra una carriera sostenibile e il rischio di bruciarsi nella corsa frenetica alla viralità.

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