E-waste: che fine fanno le 62 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici (che non vediamo)
La vita media di uno smartphone
si aggira intorno ai 2-3 anni;
quella di un laptop raramente supera i 5.
E ogni volta che un device viene “sostituito”,
genera una scia materiale di rifiuti elettronici.
Generazioni e Consumi
Sostenibilità e Green Economy
25 July, 2025
Nel nostro immaginario, il digitale è immateriale. È fatto di cloud, algoritmi, pixel e dati che fluttuano nell’aria. Madietro ogni messaggio inviato e ogni foto salvata c’è un’infrastruttura fisica fatta di plastica, metalli rari, cobalto e circuiti stampati. Ed è un’infrastruttura che invecchia molto rapidamente. L’invecchiamento dei dispositivi elettronici non è un effetto collaterale, ma un principio strutturale del modello di consumo tech: la vita media di uno smartphone si aggira intorno ai 2-3 anni; quella di un laptop raramente supera i 5. Ogni volta che un device viene “sostituito”, genera una scia materiale: cavi, batterie, hard disk, display, dissipatori. Rifiuti elettronici. In un’epoca in cui si parla sempre più spesso di sostenibilità digitale, efficienza energetica e responsabilità ecologica, perché continuiamo a ignorare l’impatto fisico, reale, del nostro consumo tecnologico?
Il peso della tecnologia
Nel 2023, il pianeta ha generato 62 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, secondo il Global E-Waste Monitor 2024 pubblicato dalle Nazioni Unite. Si tratta del valore più alto mai registrato: una massa superiore a quella della Muraglia Cinese e pari a circa 7,8 kg per ogni abitante del pianeta. Di questa montagna invisibile di hardware obsoleto, solo il 22,3% è stato formalmente raccolto e riciclato in modo tracciabile, nonostante la crescente pressione normativa e sociale verso un’economia circolare. Il resto – oltre 48 milioni di tonnellate – viene smaltito in modo informale o resta disperso, alimentando una filiera sommersa che attraversa illegalmente continenti e oceani per poi essere bruciato, interrato o trasportato in mercati paralleli, spesso sotto etichette fuorvianti di “e-second hand”.
Le rotte dell’e-waste convergono spesso in Ghana, Nigeria, India, Pakistan e Indonesia, dove i rifiuti diventano materia prima per migliaia di lavoratori che ne estraggono metalli preziosi in condizioni ambientali e sanitarie drammatiche.
Nel 2023, il pianeta ha generato 62 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici. Si tratta del valore più alto mai registrato, e solo il 22,3% è stato formalmente raccolto e riciclato.
Disparità di riciclo e passivo planetario
In Europa si producono mediamente 17,6 kg di e-waste pro capite, con una raccolta certificata di circa 7,5 kg, pari al 42,8%; mentre l’Africa registra solo lo 0,9% di raccolta documentata. Di conseguenza, Stati come Ghana, Nigeria, Pakistan e alcuni paesi del Sud-Est Asiatico – Thailandia, Indonesia – sono diventati hub mondiali dell’e-waste. Qui i container, spesso provenienti da Nord America ed Europa, scaricano frigoriferi, computer e smartphone destinati allo smontaggio informale.
Ad Agbogbloshie, periferia di Accra, Ghana, si concentra colpevolmente il lavoro sommerso: studi stimano che 13.000–17.000 tonnellate di e-waste annuali vengano trattate in condizioni gravemente pericolose. Il 64% degli elementi raccolti viene acquisito informalmente, spesso includendo materiale contaminato; studi epidemiologici segnalano gravi livelli di piombo nel sangue e un aumento di malformazioni neonatali nelle comunità vicine. Analoghi scenari si ripetono nella provincia di Chachoengsao in Thailandia, dove, nonostante il divieto di importazione asiatica del 2018, continuano a operare decine di impianti formalmente regolari ma con smaltimento non conforme.
Il 64% degli elementi raccolti viene acquisito informalmente, spesso includendo materiale contaminato.
L’impatto ambientale e sociale accompagna ogni fase: la combustione di plastiche al fosforo rilascia diossine, mentre il rilascio di metalli pesanti in acqua, suolo e aria genera malattie respiratorie croniche, danni neurologici e contaminazioni alimentari documentate. Le vittime, spesso migranti o bambini, lavorano per poche decine di centesimi al giorno, in condizioni igienico-sanitarie proibitive.
Parallelamente a ciò, giace un valore economico perso: in questi 62 Mt di materiali sono demandati circa 91 miliardi di dollari in metalli preziosi, tra cui 19 miliardi di rame e 15 miliardi di oro.
Questi dati delineano chiaramente un quadro geopolitico tortuoso: una filiera globale in cui i Paesi ricchi esternalizzano il costo ambientale e umano dell’e-waste, mentre chi lo riceve paga un tributo di malattia e degrado. Allo stesso tempo, il valore non recuperato segnala una falla incalcolabile nell’economia circolare globale: senza governance condivise e trasparenza, l’innovazione digitale produce un passivo planetario che nessuna Agenda verde potrà compensare da sola.
Tecnologie avanzate per il recupero: se il rifiuto diventa risorsa
Nonostante le grandi sfide e difficoltà, negli ultimi anni la ricerca nel campo del riciclo elettronico ha fatto passi da gigante, trasformando l’e-waste da rifiuto in potenziale risorsa. Una delle soluzioni più promettenti riguarda l’uso di batteri selettivi – studiati all’Università di Edimburgo – che sono in grado di estrarre metalli rari come cobalto, nichel, manganese e litio dalle batterie esaurite. Queste tecniche migliorano notevolmente la sostenibilità del recupero spostando la fase produttiva dall’energia termica all’approccio biologico, riducendo l’impronta ecologica complessiva dei materiali.
Parallelamente, l’automazione del processo di separazione meccanica – grazie alla visione artificiale e al machine learning – consente di identificare e separare con precisione componenti come circuiti stampati, plastiche, vetro e metalli preziosi. Sistemi avanzati raggiungono tassi di discriminazione intorno al 98%, una soglia che rende superflue molte operazioni manuali, spesso meno sicure e meno efficaci.
In quest’ottica, modelli industriali innovativi propongono la rigenerazione completa del dispositivo, non solo del materiale. Diverse aziende rimettono in funzione laptop usati secondo standard certificati – arrivando a ridurre le emissioni fino al 95% rispetto a un nuovo prodotto – mentre altre realtà creano reti integrate di raccolta e riciclo etico, promuovendo una vera economia circolare che mescola qualità ambientale e impatto sociale. Questi casi dimostrano che non esiste una sola via al riciclo intelligente, ma una pluralità di approcci che coniugano tecnologia avanzata e sostenibilità con un valore economico reale.
Normativa europea e responsabilità dei produttori
All’interno dell’Unione Europea, il quadro normativo per gli apparecchi elettronici è regolato da due direttive fondamentali: la WEEE Directive e la Waste Framework Directive. Queste norme impongono ai produttori la responsabilità estesa dei propri dispositivi, obbligandoli a garantire la raccolta, il ritiro e il riciclo di una parte significativa del prodotto e monitorare i flussi. I tassi minimi di riciclo fissati – come il 65% degli apparecchi immessi sul mercato – fissano un parametro concreto, pur lasciando alla capacità infrastrutturale degli Stati membri il compito della raccolta e dell’implementazione pratica.
Negli ultimi anni, in risposta alla crescita esponenziale dell’e-waste, la Commissione Europea ha avviato una revisione normativa per armonizzare i sistemi di riporto dati tra gli Stati e rafforzare i controlli sulle importazioni e sulla gestione domestica. Stanno emergendo strumenti di tracciabilità digitale, rendicontazione pubblica e incentivi per l’ecodesign.
Parallelamente, i produttori vengono responsabilizzati anche nella fase di progettazione: i beni elettronici devono essere concepiti per essere riparabili, modulari, duraturi. Questo cambio di metodo vede le aziende coinvolte non solo nella fase di produzione ma anche nella gestione post-consumo, con un ruolo centrale nell’assicurare che i dispositivi entrati nel mercato possano anche rientrarne in modo controllato e responsabile.
Il consumatore digitale: responsabilità e consapevolezza del singolo individuo
Il ciclo dell’e-waste non si chiude nelle mani delle istituzioni o delle imprese: la vera leva di cambiamento passa anche dalle scelte del consumatore finale. Secondo una recente indagine condotta da Eurostat, oltre il 54% degli europei conserva dispositivi elettronici non funzionanti in casa.
In Italia il dato è ancora più alto: in media, ogni famiglia tiene in casa almeno quattro apparecchi obsoleti, principalmente per motivi affettivi o per semplice mancanza di informazione sui canali di smaltimento corretti.
La percezione comune della tecnologia come bene “usa e sostituisci” ha favorito, negli anni, la crescita di un consumo impulsivo, poco attento alla durabilità dei prodotti e al loro destino post-utilizzo.
Una ricerca Ipsos del 2023 ha evidenziato come solo il 23% degli italiani consideri l’impatto ambientale nella scelta di un nuovo smartphone, mentre il criterio dominante resta la potenza e la novità del dispositivo.
Eppure, gli strumenti per una gestione più sostenibile esistono. In Italia, il consorzio nazionale RAEE ha attivato più di 5.000 punti di raccolta per rifiuti elettronici; il problema è che spesso mancano campagne informative capillari, strumenti digitali intuitivi o incentivi pratici. Il ruolo dei cittadini – come acquirenti, ma anche come smaltitori – diventa cruciale per ridurre i flussi sommersi e orientare la domanda verso prodotti riparabili, aggiornabili, certificati.
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