Welcome to Favelas e il futuro dei media. Intervista al fondatore Massimiliano Zossolo sulle nuove regole dell’informazione online.

Dal 2013, Welcome to Favelas ha portato sul panorama social un'innovativa corrente di giornalismo partecipativo, diffondendo video da ogni angolo d'Italia e rappresentando una cronaca nuda e cruda. Questa piattaforma, spesso al centro del dibattito per il suo verismo senza veli, ha rivoluzionato la nostra concezione di "notizia" e il modo in cui ci approcciamo all'informazione. La sua ascesa ha ribaltato le convenzioni giornalistiche, ridisegnando la dinamica tra media, fonti e pubblico.

27 Ottobre, 2023 - ~ 9.5 minuti

Nonostante i vari ostacoli, “Welcome to Favelas” vanta oggi una vasta community: 887.000 follower su Instagram, 516.000 su Telegram e 117.000 su TikTok. I suoi contenuti mostrano frammenti di vita reale, forniti da una community appassionata, sempre in prima linea per documentare e condividere momenti autentici, sottolineando l’affiliato motto: “Welcome to Favelas“.

Ma da dove nasce questo fenomeno? Qual è la sua filosofia e quale onda ha generato nella società odierna? Abbiamo avuto l’opportunità unica di chiedere direttamente a Massimiliano Zossolo, mente e fondatore del progetto, in un’intervista esclusiva per Nooo Borders.

Ciao Massimiliano, puoi raccontarci com’è nata l’idea di creare questo progetto digitale?

Non c’era nessun piano. All’inizio era solo un tentativo, quasi un esperimento: caricare qualche immagine su internet, senza una vera e propria intenzione. Non era giornalismo. Non era una denuncia. Solo qualcosa in più nel rumore web, quasi persa tra le frequenze digitali. Ma poi, come un virus, ha iniziato a mutare, a evolversi, e io l’ho lasciato crescere.

Roma è stata il paziente zero. L’epicentro. Tutto è iniziato lì, tra le sue strade e problemi. E mentre la pagina si diffondeva, portando con sé frammenti di vita da ogni angolo d’Italia, il nucleo rimaneva nella Capitale. Perché? Forse un senso di lealtà. Un legame inconscio con i cittadini romani, affamati di verità come me.

Puoi raccontarci come hai visto l’evoluzione del tuo progetto dal 2013 ad oggi? E come funziona esattamente il meccanismo di raccolta e condivisione dei video su “Welcome to Favelas”?

Tutto è nato nel 2013. Mi torna in mente come un flashback: eravamo un gruppetto di amici con un mucchio di idee e curiosità su ciò che ci succedeva intorno. Ora sono principalmente io a gestire “la baracca”. Non c’è una vera e propria redazione, qualche amico che mi aiuta nella gestione delle diverse piattaforme e che preferisce l’anonimato, ma soprattutto: un flusso costante di contributi da chi vive la sua città ogni giorno.

Oggi, quando qualcosa si distorce nella normalità, c’è chi lo cattura con una fotocamera e me lo manda. Diventando, in un certo senso, testimone dell’assurdo e dell’inaspettato, con quel grido: “Welcome to Favelas” a segnare ogni incongruenza. Tutto qui. Siamo il marchio dell’eccezionale, del curioso, dell’inedito. Siamo la voce delle strade.

Il profilo TikTok di Welcome to Favelas

Quanti follower ha “Welcome to Favelas” attraverso tutti i vostri canali e come vengono gestite le diverse piattaforme?

Quando parlo di “Welcome to Favelas” posso vantare mezzo milione di follower solo su Instagram. Ma l’immagine complessiva è molto più grande: in totale, attraverso tutti i nostri canali tematici, parliamo di quattro milioni. Dal mondo degli animali agli incidenti stradali, ogni canale ha la sua essenza, il suo battito cardiaco. In questo caos ordinato, io sono il regista. Ho un team di amministratori, ognuno con le proprie competenze e specializzazioni, che si occupa di piattaforme come TikTok e Instagram; mentre io mi concentro principalmente su Telegram: il social che ritengo essere la principale piattaforma di comunicazione.

Per quale motivo hai scelto Telegram come principale piattaforma di comunicazione, e in che modo si distingue dalle altre?

È un canale di comunicazione estremamente puro e diretto, dove l’informazione fluisce senza interruzioni indesiderate. Non c’è spazio per interventi fuori tema o commenti irrilevanti che spesso popolano altre piattaforme come per esempio Facebook. È una sorta di “ritorno alle origini di internet”, prima dell’avvento dei social media, quando le informazioni erano presentate senza il costante rumore di fondo delle opinioni di tutti: inesperti, disinteressati all’argomento, haters, e così via.

Specialmente quando non sono informate o pertinenti, le idee possono facilmente distorcere o diluire il messaggio principale, depotenziandolo. Su Telegram, invece, l’essenza della comunicazione rimane incontaminata, permettendo agli utenti di concentrarsi esclusivamente sul contenuto principale e da loro scelto, senza perdersi in sterili polemiche.

Come definiresti il tuo lavoro all’interno del progetto “Welcome to Favelas”, lo paragoneresti in qualche modo a quello di una testata giornalistica?

Non siamo nati come una vera e propria testata giornalistica. Tuttavia, abbiamo responsabilità e problematiche simili. È come se il peso di ogni storia, di ogni denuncia, ricadesse su di me. Come se ogni volta che apriamo una nuova pagina, una nuova breccia nel muro del convenzionale, io diventassi la cerniera che tiene tutto insieme. Legalmente, è così che la situazione si presenta. E ogni critica, ogni problema, finisce direttamente sul mio tavolo.

La gente guarda e interpreta secondo i propri preconcetti e opinioni e questa è la maggiore difficoltà. Molti mi hanno accusato di avere un’agenda di committenti, o di essere incline a una parte politica piuttosto che a un’altra. Ma io sono solo uno specchio. Rifletto ciò che vedo, senza filtri. E per rispondere alla vostra domanda sul modo in cui definire il mio ruolo all’interno di tutto questo, posso dire che sono soltanto un tramite, un catalizzatore di voci, un cercatore dell’autenticità.

Ti capita mai di collaborare con testate giornalistiche tradizionali? Se sì, come si sviluppa questa sinergia?

Più volte a settimana, la mia casella di posta risuona con nuove richieste. Giornalisti, redattori, curiosi. Mi cercano, vogliono un pezzo di quello che ho. Avverto sempre: i nostri contenuti sono lì, pronti per essere raccolti. L’unica regola? Non oscurare il nostro logo. È una sorta di codice non scritto, un gesto di rispetto reciproco. Nel corso degli anni, ho stretto la mano a molti direttori, ho condiviso caffè e confidenze. Ho tessuto una rete, sottile ma resistente, che attraversa l’intero panorama editoriale della nazione.

Oltre al tuo lavoro come curatore di informazioni, hai altre passioni? Se sì, potresti condividere qualche dettaglio personale con noi?

Al di là di questa mia facciata da curatore di informazioni, la mia vera passione giace nell’ombra: la scrittura. Non come si potrebbe immaginare, però. Non sono l’autore che firma con il proprio nome, bensì l’anonimo che si nasconde dietro le parole. Una sorta di ghostwriter. Nel mondo dell’informazione, le luci sono brillanti ma spesso non riscaldano. È difficile trarre un sostentamento stabile. Ma io, con la penna in mano, trovo il mio equilibrio. Ho scritto su temi vari, alcuni più delicati degli altri. Ad esempio, ho recentemente completato un libro sulla masturbazione maschile. Un viaggio intimo e profondo, un’esplorazione della psiche e del corpo, una provocazione intellettuale. E, come sempre, senza mai apporre il mio nome sulla copertina.

Sei mai stato tentato di diventare un giornalista accreditato, o preferisci esplorare la realtà quotidiana senza i vincoli di un codice professionale?

Nonostante bazzichi nel mondo del giornalismo, mi sono sempre tenuto lontano da quel piccolo rettangolo di plastica chiamato tesserino. Le regole, i vincoli, le restrizioni? No, grazie. Preferisco rimanere libero, non incatenato da un codice di condotta. La vita, come l’arte, dovrebbe essere senza filtri.

Qual è la tua chiave di lettura delle immagini nel quotidiano, e cosa ti spinge a focalizzarti su alcuni eventi piuttosto che altri?

Il grottesco, l’ironia involontaria… ecco cosa mi attrae. Le scene di quotidianità che catturano l’essenza dell’umanità. Pensa a due sconosciuti che litigano su un autobus. Non sai come è iniziato e non ti importa come finirà. Quei pochi secondi, rappresentano la realtà nel suo stato più puro. E io voglio mostrare solo quel momento, senza grandi descrizioni o analisi. Semplicemente, la vita per com’è davvero mentre la osserviamo.

Il profilo Instagram di Welcome to Favelas

Cosa ti affascina di più nelle dinamiche umane e nei momenti di vita quotidiana che catturi?

Amo il grottesco, l’ordinario che diventa improvvisamente straord    inario. Sai quelle scene di vita quotidiana che sembrano troppo strane per essere reali? Quelle persone che discutono furiosamente in pubblico, e tu, come spettatore, non puoi fare a meno di guardare, anche se vorresti distogliere lo sguardo? È come un incidente stradale – non vuoi guardare, ma non puoi fare a meno di farlo. C’è qualcosa di irresistibilmente affascinante nel poter catturare il vero nella sua totale espressione di libertà.

Nel contesto di “Welcome to Favelas”, come definiresti il tuo approccio narrativo per coinvolgere il pubblico?

“Welcome to Favelas” è un ritratto iperrealistico della nostra società. Il mio lavoro rispecchia questo principio: una lente d’ingrandimento sul mondo intorno a noi. È come leggere una pagina di un romanzo contemporaneo, ma invece di parole, ci sono immagini. E qui si presenta la sfida: la percezione digitale del reale. C’è una scena in “Arancia Meccanica” in cui, dopo la “cura Ludovico”, il sangue scorre e c’è una riflessione sul potenziamento delle immagini attraverso lo schermo sul quale viene mostrato. Ciò che potrebbe sembrare “normale” nella vita reale, sullo schermo assume un’importanza e un’urgenza totalmente nuove: questo è l’impulso narrativo che muove il mio lavoro.

Come gestisci il processo di selezione dei video che vengono presentati al tuo team, e quali sono i criteri che usi per scegliere ciò che verrà effettivamente mostrato?

La selezione è una parte cruciale del mio lavoro. Anche se ho un team che mi aiuta nella pre-selezione, la decisione finale è sempre la mia. Ogni giorno riceviamo migliaia di filmati, e dobbiamo necessariamente essere selettivi. C’è una certa qualità che esigo in ogni video: chiarezza nel messaggio, originalità e autenticità. Non voglio vedere loghi, filtri di Instagram o qualsiasi altra distrazione. Voglio che l’essenza della realtà catturata nel filmato sia genuina.

In un mondo dominato da notizie e tendenze, come decidi di approcciare gli argomenti più attuali?

Ci sono argomenti che dominano le notizie, come la guerra, che diventano ‘trend topic’. Ma, a differenza di molti, non seguo ciecamente questi trend. Ad esempio, se c’è un grande clamore sulle scommesse e un calciatore famoso viene coinvolto in uno scandalo, non mi focalizzo sulla notizia principale. Sono più interessato a catturare quella scena unica e autentica in un centro scommesse, per esempio, dove magari due persone comuni discutono animatamente su una giocata, e qualcosa di insolito accade. Questo è il mio modo di ‘viaggiare sottopelle’, di immergermi nel vero spirito di un trend senza seguire la corrente principale.

Come differenzi il tuo stile giornalistico dai media tradizionali quando affronti argomenti molto delicati, come per esempio il terrorismo?

Il mio approccio al giornalismo va oltre la semplice narrazione dei fatti. Cerco di sondare come la realtà venga influenzata e a volte distorta dai trend del momento. Quando la maggior parte dei media si concentra su una storia dominante, io cerco di trovare una prospettiva diversa, una visione alternativa che possa dare una luce differente sull’argomento. Prendiamo il tema del terrorismo. Mentre la maggior parte dei media diffonde le dichiarazioni ufficiali o le opinioni di alti funzionari, io cerco qualcosa di più sottile e rivelatore. Non sono interessato a ciò che dice il ministro degli interni; ma a come la gente comune reagisce e si comporta in situazioni reali. Una stazione ferroviaria messa in subbuglio a causa di uno zainetto lasciato incustodito, può dirci molto di più sul clima di paura e sospetto che una dichiarazione ufficiale. La mia missione è catturare questi momenti, questi spaccati di realtà umana, per mostrare una versione sincera degli eventi.

Parliamo del tuo background. Quale esperienza o collaborazione passata ha influenzato maggiormente il tuo stile nella creazione di “Welcome to Favelas”?

Cronaca Vera era un pezzo inestimabile del panorama giornalistico italiano, un pilastro della cronaca nera. Ho avuto l’onore di lavorare per questo giornale, e posso dire con certezza che ha avuto un impatto significativo sulla mia carriera e sul mio stile giornalistico. Dopo aver gestito la loro comunicazione social per diversi anni, mi sono reso conto dell’importanza di quei titoli audaci e delle storie sensazionalistiche che spesso erano la linfa vitale della rivista. Ciò che ha sempre avuto era una grafica unica e accattivante che, combinata con le storie e i personaggi grotteschi, lo rendeva simile a un romanzo pulp in continua evoluzione.

Come hai cercato di adattare l’essenza e la narrativa di Cronaca Vera alla piattaforma digitale e al pubblico online di oggi, considerando le differenze tra i due mezzi di comunicazione?

La risposta risiede nella comprensione di ciò che tende alla viralità. Grazie all’avvento di internet, ho tentato di portare quel particolare stile di comunicazione a un pubblico più giovane, cercando di attualizzarlo. E come mi ricordava spesso il direttore, Cronaca Vera era “’l’internet prima dell’internet”. Cercavano sempre la viralità, ossia la capacità di attirare l’attenzione in un modo che ti trascinava in un’atmosfera oscura e al tempo stesso intrigante. Quel senso di curiosità morbosa è ciò che mi ha influenzato e ha lasciato un’impronta indelebile sul mio stile di giornalismo.

Come valuti l’evoluzione del giornalismo in un’era dominata dai social media e dalla caccia ai “like”, e qual è la tua visione dell’informazione in questo contesto?

Per ogni informazione che viene divulgata, ciò che leggi in superficie è solo una parte della storia. C’è un sottolivello emotivo e viscerale che spesso ha un impatto maggiore, ma che viene ignorato dai media tradizionali. La mia idea di giornalismo si basa sul porre in evidenza questa verità sotterranea; specialmente in un’era in cui la comunicazione su internet è dominata dalla caccia ai ‘like’ e ai commenti, e l’essenza del vero giornalismo rischia di andare perduta.

La corrente del ‘politicamente corretto’ spesso ostacola l’autenticità di un fatto, in quanto molti cercano di compiacere piuttosto che di informare. Penso si debbano riscrivere molte regole a favore di un’informazione più pura e veritiera.

La tua professione ti ha mai esposto a reazioni ostili da parte pubblico?

Penso sia inevitabile, quando gestisci pagine cariche di contenuti sensibili. Ho ricevuto numerose minacce di morte. La pagina “Welcome to favelas” è spesso presa di mira senza una ragione chiara. Nonostante presentiamo le notizie in modo obiettivo, ci accusano di ironizzare su temi seri. Ma la nostra intenzione non è mai stata quella di fare ironia o comicità. Se qualcuno percepisce ciò, è una sua interpretazione personale.

Quali sfide hai affrontato nel mantenere un equilibrio tra la tua vita privata e la tua carriera?

Per proteggere la mia privacy, ho dovuto nascondere il mio profilo personale a causa dell’incessante flusso di messaggi. Leggendo i commenti negativi, è facile sentirsi sopraffatti. Le persone spesso proiettano le loro percezioni o pregiudizi su di noi, etichettandoci in vari modi, persino politicamente. Anche il rapporto con la stampa non è sempre stato semplice. A volte, le informazioni che fornisco vengono manipolate o prese fuori contesto e devo costantemente mantenere la guardia alzata per verificare che ciò non avvenga.

Come affronti la sfida di mantenere l’integrità delle tue parole e delle tue dichiarazioni in un ambiente dove le informazioni possono essere facilmente distorte o manipolate?

Alcuni giornalisti cercano di adattare ciò che dico alle loro narrative, spesso sensazionalistiche, e ciò può portare a interpretazioni errate. A volte, quando le discussioni diventano troppo tossiche, sono costretto a bloccare i commenti. Se il problema fosse solo la reputazione, sarebbe gestibile, ma il rischio concreto è di vedersi cancellare la pagina o accusare di essere fomentatori di odio; cosa non vera. Instagram ti cancella senza troppe verifiche, e dietro c’è un’ombra di ostilità che per gli haters diventa facile usare come arma. Basta un trio di commentatori maliziosi sotto un post; o un giornalista in cerca di storie da manipolare; e il gioco è fatto. Ho un archivio di materiale che scelgo di non pubblicare, come atti di bullismo che potrebbero servire come denuncia sociale, ma che attirerebbero solo critiche. Occorre stare sempre molto attenti e limitarsi nella pubblicazione di ciò che potrebbe surriscaldare troppo gli animi.

Qual è il tuo rapporto con le forze dell’ordine in relazione ai contenuti che pubblichi?

In un mondo dove ogni angolo sembra avere una telecamera, mi trovo spesso a interagire con le forze dell’ordine. Li contatto direttamente, a volte, ma solo quando la posta in gioco è alta – quando vedo bambini coinvolti o anziani maltrattati, per esempio. Le forze dell’ordine seguono i miei canali Telegram, ma non si può dire che siamo sempre amici. Specialmente quando ho mostrato al mondo gli abusi dei loro colleghi. Non l’hanno presa bene. E poi c’è la polizia postale. Quelli mi hanno avuto più volte sotto i loro riflettori, cercando di mettermi alle strette. “Dimmi esattamente cosa è successo” o “Chi ha fatto la denuncia?” Mi chiedevano con fare intimidatorio, come se io avessi informazioni su qualunque evento negativo che fosse avvenuto in città.

Non sembra un lavoro facile, possiamo chiederti quali sono le tue maggiori soddisfazioni?

Ci sono momenti in cui tutto ha senso. Quando vedo il mio lavoro sui grandi schermi dei TG, quando sento di essere stato utile, mi sento vivo. E quando riesco a svelare un caso di ingiustizia, beh, quell’adrenalina non ha prezzo.

Massimiliano Zossolo

Abbiamo avuto il piacere di immergerci nelle riflessioni di Massimiliano Zossolo. A 39 anni, Massimiliano, con la sua umiltà che ricorda l’adagio di Voltaire sulla certezza e il dubbio, evita con eleganza l’etichetta di “esperto di comunicazione”. Sospettoso di chi pretende di detenere la verità assoluta in un campo, ambisce a un giornalismo senza filtri, dove la realtà parli da sé. Con echi narrativi di Bukowski nella sua voce, e uno sguardo rivolto al futuro, Zossolo riscrive con la forza delle immagini un nuovo, poetico senso di giustizia nel mondo della cronaca. Nutre la speranza di un’informazione libera e autentica, e noi lo ringraziamo per la sua preziosa condivisione.